Margin Call è il classico film che si produce a Hollywood da qualche anno a questa parte. Come un tempo con il Vietnam o con qualsiasi altro fatto saliente che abbia scosso la nazione. Ora sono gli anni della crisi finanziaria, e dopo il secondo Wall Street e Inside Job, il documentario sui maxi stipendi dei responsabili della crisi che si appresta a vincere l’Oscar, ecco un altro film in cui si parla dei centri del potere finanziario americano, in cui si vede New York in tutta la sua mastodontica bellezza, in cui ci sono dei tizi ambiziosi con la camicia a righe e le bretelle e tutto l'immaginario yuppie che fa sembrare American Psycho una roba dell'altro ieri, con le sinistre ossessioni di Ellis ridotte alla loro mera sostanza: al denaro come entita' invisibile e onnipresente. Denaro che non esiste ma che determina ogni cosa, denaro che non muta le caratteristiche della superficie, ma lavora al di sotto, corrodendo la stabilità del sistema. Margin Call è prima di tutto un film recitato da dio, con Kevin Spacey e Jeremy Irons ai livelli di un tempo e il solito grandioso Stanley Tucci. È la classica storia di bolle finanziarie, riunioni notturne, birra nei sacchetti di carta e sedute davanti a computer sui cui schermi figurano grafici e numeri che nemmeno i personaggi riescono a capire. Questa volta, pero', c'e' almeno l’onestà di ammetterlo: “mi spieghi la cosa come a un bambino di sei anni”, dice il capone della compagnia a uno dei suoi manager, “come a un fox terrier”. Geniale. Come la scena in cui uno dei protagonisti passa per le vie della città in taxi e osservando la gente sui marciapiedi si chiede come è possibile che nessuno di loro sappia cosa stia avvenendo: e cioè che il mercato sta crollando, che è già crollato, ma solo in pochi sanno perchè e soprattutto se ne renderanno conto.
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Margin Call è il classico film che si produce a Hollywood da qualche anno a questa parte. Come un tempo con il Vietnam o con qualsiasi altro fatto saliente che abbia scosso la nazione. Ora sono gli anni della crisi finanziaria, e dopo il secondo Wall Street e Inside Job, il documentario sui maxi stipendi dei responsabili della crisi che si appresta a vincere l’Oscar, ecco un altro film in cui si parla dei centri del potere finanziario americano, in cui si vede New York in tutta la sua mastodontica bellezza, in cui ci sono dei tizi ambiziosi con la camicia a righe e le bretelle e tutto l'immaginario yuppie che fa sembrare American Psycho una roba dell'altro ieri, con le sinistre ossessioni di Ellis ridotte alla loro mera sostanza: al denaro come entita' invisibile e onnipresente. Denaro che non esiste ma che determina ogni cosa, denaro che non muta le caratteristiche della superficie, ma lavora al di sotto, corrodendo la stabilità del sistema. Margin Call è prima di tutto un film recitato da dio, con Kevin Spacey e Jeremy Irons ai livelli di un tempo e il solito grandioso Stanley Tucci. È la classica storia di bolle finanziarie, riunioni notturne, birra nei sacchetti di carta e sedute davanti a computer sui cui schermi figurano grafici e numeri che nemmeno i personaggi riescono a capire. Questa volta, pero', c'e' almeno l’onestà di ammetterlo: “mi spieghi la cosa come a un bambino di sei anni”, dice il capone della compagnia a uno dei suoi manager, “come a un fox terrier”. Geniale. Come la scena in cui uno dei protagonisti passa per le vie della città in taxi e osservando la gente sui marciapiedi si chiede come è possibile che nessuno di loro sappia cosa stia avvenendo: e cioè che il mercato sta crollando, che è già crollato, ma solo in pochi sanno perchè e soprattutto se ne renderanno conto.
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