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Maria Pasquinelli: un’agente nell’Italia liberata (III)

Creato il 04 agosto 2013 da Casarrubea

Claudia Cernigoi

L’assassinio del generale De Winton

La mattina del 10 febbraio 1947, in concomitanza con la firma del trattato di pace, a Pola era previsto il passaggio delle consegne dall’amministrazione britannica a quella jugoslava. Nell’occasione la guarnigione britannica, schierata davanti alla sede del Comando, doveva essere passata in rassegna dal brigadiere generale Robert W. De Winton, comandante della Tredicesima Brigata di Fanteria a Pola.

Mentre l’ufficiale avanzava verso il reparto, dalla folla si staccò una donna vestita di rosso, che estrasse una pistola dalla borsetta e sparò contro di lui, uccidendolo sul colpo; un altro proiettile ferì, non gravemente, il soldato che aveva cercato di proteggerlo. L’attentatrice Maria Pasquinelli fu immediatamente arrestata, e le fu trovato in tasca un biglietto di rivendicazione, del quale vale la pena di riprodurre il testo [1].

Seguendo l’esempio di 600.000 Caduti nella guerra di redenzione 1915-18, sensibile come Loro all’appello di Oberdan, cui si aggiungono le invocazioni strazianti di migliaia di giuliani infoibati dagli Jugoslavi dal settembre 1943 a tutt’oggi, solo perché rei di italianità a Pola irrorata dal sangue di Sauro, capitale dell’Istria martire, riconfermo l’indissolubilità del vincolo che lega la Madre Patria alle italianissime terre di Zara, di Fiume, della Venezia Giulia, eroici nostri baluardi contro il panslavismo minacciante tutta la civiltà occidentale. Mi ribello col proposito fermo di colpire a morte chi ha la sventura di rappresentarli, ai Quattro Grandi, i quali, alla conferenza di Parigi, in oltraggio ai sensi di giustizia, di umanità e saggezza politica, hanno deciso di strappare ancora una volta dal grembo materno le terre più sacre d’Italia, condannandole o agli esperimenti di una novella Danzica o, con la più fredda consapevolezza che è correità, al giogo jugoslavo, oggi sinonimo per le nostre genti, indomabilmente italiane, di morte in foiba, di deportazione, di esilio

Come si vede, i contenuti di questo messaggio non si limitano ad essere irredentisti o nazionalisti, sono addirittura razzisti e xenofobi, oltre a far leva sulla falsa propaganda delle “foibe”, creata proprio dai servizi della Decima grazie anche al contributo della stessa Pasquinelli, che si fece forte delle menzogne da essa stessa propagate per “giustificare” il proprio atto criminale nei confronti di una persona che, come ha chiaramente espresso uno storico, “non era personalmente colpevole di nulla ma aveva il torto di rappresentare le potenze” che avevano firmato il trattato di pace [2]. Ed a conferma del pensiero razzista di colei che è stata più volte definita “italiana di purissimi ideali”, riportiamo alcune sue dichiarazioni nel corso del processo i cui fu imputata:

Non ho mai creduto si trattasse (le “foibe”, n.d.a.) di fenomeno comunista contro il fascismo in Istria, per me si trattava senz’altro di panslavismo (…) io non lo vedo soltanto contro l’Italia ma contro tutta l’Europa occidentale. Il popolo slavo si esprime secondo la sua possibilità, è un popolo giovane che ha tutte le doti e i demeriti di un popolo giovane, crede sino al fanatismo nella sua fede. La possibilità di critica, che è caratteristica dei popoli vecchi e che è caratteristica particolare del popolo italiano, per loro non esiste [3].

Complicità dell’Intelligence

Il più volte citato articolo di Casarrubea e Cereghino dimostra, documenti britannici alla mano, come l’insano atto di Maria Pasquinelli non fu un fulmine a ciel sereno, ma può essere definito una tragedia più che annunciata [4].

Infatti già nel settembre 1945 un ragazzo di 15 anni, Giorgio Sorteni, aveva denunciato la Pasquinelli alla Questura di Venezia, perché aveva “appreso che la donna stava per mettersi in viaggio per l’Istria per promuovere propaganda fascista e anti-slava”.

Il 17/2/47 (una settimana dopo l’omicidio) si tenne a Trieste una Commissione militare d’inchiesta composta dal tenente colonnello Gaisford e dai maggiori Mitchell e Stephenson. Testimone chiave il sergente H. Ross, agente della FSS, di stanza a Pola, che dichiarò di avere ricevuto, il 25 ottobre precedente, il seguente telegramma (inviato dai servizi informativi alleati):

“General staff intelligence (GSI) / 208. Segreto. Informazione ricevuta dall’unità ‘Z’ dello Special counter intelligence (SCI) di Milano. Una fonte solitamente attendibile afferma che Pasquinelli Maria potrebbe attentare alla vita del Comandante militare alleato dell’area di Pola, in segno di protesta per le decisioni di Parigi. Si presume che il Soggetto lascerà Milano per Pola tra pochi giorni e che farà sosta a Venezia”.

Ross contattò immediatamente il suo superiore a Trieste (il capitano Middleton, comandante del XXI Port Security Section) per chiedergli istruzioni, e questi gli rispose che le avrebbe ottenute dal GSI. Queste le direttive impartite ventiquattro ore dopo per via telefonica:

“a) per nessun motivo la donna doveva essere arrestata o interrogata. Inoltre, non si doveva agire in modo da destare i suoi sospetti; b) il GMA e la Polizia della Venezia Giulia dovevano essere allertate sulle sue intenzioni; c) dovevo chiedere alla Polizia della Venezia Giulia che mi informassero dell’arrivo della donna e fare in modo che fosse posta sotto osservazione”.

In seguito a ciò Ross seguì i movimenti dell’ex insegnante: partita il 20 ottobre 1946 da Trieste e giunta a Pola il 3 dicembre, la sera stessa si presentò nel suo ufficio, dove il sergente le controllò i documenti e le domandò il motivo della sua visita in città. Pasquinelli rispose di essere una professoressa di scuola che si interessava di cultura istriana.

Ross non la interrogò, come da istruzioni, ed il giorno dopo aggiornò il capitano Middleton, a Trieste, che gli disse di “allertare la Ventiquattresima Brigata e il GMA e di chiedere alla Polizia della Venezia Giulia di tenerla d’occhio”. Ma la FSS “non ricevette ulteriori istruzioni o informazioni sulla donna fino al giorno dell’omicidio”. In seguito Ross appurò che la donna era partita da Pola il 6 dicembre 1946 e vi era ritornata l’11 gennaio; ripartita nuovamente il 5 febbraio, era ritornata in città l’8.

Agghiacciante la dichiarazione del brigadiere Erskine, che asserì di aver incontrato il generale De Winton alla fine di gennaio del 1947, a Trieste, ma di non avergli parlato delle segnalazioni riguardanti Maria Pasquinelli, perché la questione “gli era sfuggita di mente”.

Queste le conclusioni della Commissione: “L’omicidio è stato reso possibile da precisi ordini che sarebbero giunti dal Quartier generale alleato. Secondo questi ordini, la donna non doveva essere arrestata, perquisita o interrogata. Al momento, questa Commissione ritiene impossibile stabilire chi abbia emanato queste direttive. Sembra che il capitano Middleton (che ora è stato collocato in congedo) abbia ottenuto tali istruzioni dal GSI/Quartier generale alleato. Dalle indagini condotte presso il GSI, sembrerebbe che l’ufficiale che ha trasmesso le direttive al capitano Middleton è stato anch’egli congedato”.

È molto interessante che la fonte che avrebbe informato il GSI sui propositi omicidi di Maria Pasquinelli sarebbe stato dapprima indicato dalla sede milanese dello SCI/Z nell’ex agente nazista Zolyomy (Zolomy) Andrea (il Bandi che abbiamo già incontrato come possibile responsabile dell’arresto di Parri e dell’agente Grange della Franchi), ed all’epoca detenuto in attesa di processo a Milano; ma qualche giorno dopo, con un telegramma top secret inviato a vari uffici, il GSI non solo smentì che la fonte fosse stata Zolomy ma aggiunse in modo piuttosto perentorio che “lo SCI/Z non intende rivelare l’identità del vero confidente”.

Inoltre il 16/2/47 lo SCI/Z inviò al Comando alleato copia di un altro cablogramma, datato 24 ottobre 1946, nel quale si legge così: “Si ritiene che Maria Pasquinelli abbia studiato gli spostamenti quotidiani [del generale De Winton, n.d.r.] e che abbia deciso di sparargli mentre questi è intento a passare in rassegna le truppe. […] La donna è la nipote dell’ex ministro della Guerra della Rsi, Soddu, ed è dipinta come fanatica e determinata [5]”: il che rende ancora più grave la posizione dei servizi informativi che sapevano ma non agirono per prevenire l’omicidio.

Al comando dello SCI/Z c’era l’allora giovane ed ambizioso capitano Angleton, lo stesso che aveva portato in salvo Borghese e che abbiamo già visto come riciclatore di nazifascisti. Ed in quella sezione dell’OSS lavorava anche il triestino Bruno Uberti-Huppert che nel dopoguerra cercò di arruolare il comandante dei Nuotatori Paracadutisti della Decima Nino Buttazzoni che era ancora in clandestinità a Roma per “combattere contro i titini per l’italianità di Trieste” [6].

Dei progetti omicidi di Pasquinelli sarebbe stato al corrente anche il generale Usmiani, come ha narrato il figlio Umberto in un’intervista. Infatti nel 1946 “una sua ex compagna di liceo, anche lei di Pola, lo chiamò per raccontargli che una sua amica, una certa Maria Pasquinelli, si allenava in un cortile con una pistola perché voleva uccidere un alto ufficiale alleato”. Usmiani informò subito lo SCI, ma non si occupò più della vicenda finché, quando venne a sapere De Winton era stato effettivamente ucciso, allora andò a protestare con il capo dello SCI Angleton, il quale gli rispose asciutto: “Toni, ci sono cose che nemmeno tu puoi capire”.

Ed Umberto Usmiani aggiunge: “Mio padre era convinto che la Pasquinelli fosse coinvolta, forse anche a sua insaputa, in un movimento destinato a far insorgere gli italiani d’Istria contro l’occupazione titina, o che almeno così le era stato fatto credere, tanto che quando la donna uccise il generale lui stesso pensò che quel gesto fosse il segnale dell’insurrezione”[7]

A questo proposito storico Fulvio Salimbeni ha ipotizzato che “le bombe scoppiate a Pola potevano preludere ad una insurrezione filo italiana”, forse “per bloccare le pretese jugoslave” [8]?

E Carla Mocavero, a sua volta ha asserito che, avendo il generale Alexander “promesso a Tito” i territori “fino all’Isonzo”, per “poter tornare indietro doveva avere una scusa, come dirgli che si rischiava una sollevazione che avrebbe potuto portare ad una guerra con l’Italia” [9]. Insomma, “salvare” Trieste pur evitando una nuova guerra, ed in questa logica poteva avere un senso la creazione, da parte italiana, di una strategia della tensione in Istria. Il che non spiega, comunque, il silenzio connivente dei servizi statunitensi ai danni degli alleati britannici.

L’arma del delitto

I servizi alleati così concludono il rapporto: “La donna afferma di aver trovato la pistola Beretta [con la quale uccide De Winton, n.d.r.] a Milano, per strada, durante i combattimenti dell’aprile-maggio 1945”, ed aggiungono anche “un fatto inedito” rivelato dalla sua amica Cinzia Soddu (colei che l’aveva ospitata a Milano): Pasquinelli aveva tentato di procurarsi una pistola già un anno prima, a Milano, tra il dicembre 1945 e il gennaio 1946, perché “temeva di rimanere vittima di qualche rappresaglia, a causa delle sue ben note attività anti-slave” [10].

Ed ancora a proposito di questa pistola, nel libro di Turcinovich si legge che “non era Maria che avrebbe dovuto sparare, il compito sarebbe stato assegnato” ad un non meglio identificato “Giuliano” che, “preso dagli scrupoli”, avrebbe passato la pistola alla Pasquinelli (che peraltro non ha mai ritrattato la sua affermazione di avere trovato la pistola “per puro caso” in strada a Milano).

Ma chi era questo “Giuliano”? Conclude Mocavero, dopo avere parlato dei documenti rintracciati da Casarrubea e Cereghino: “adesso ci pare possibile che fosse proprio il colonnello Giuliano (Salvatore Giuliano, n.d.a.)” [11].

Il processo

Dopo l’arresto, Maria Pasquinelli fu invitata a scegliersi un avvocato, anche se “lei avrebbe voluto difendersi da sola” e dalla lista di quelli d’ufficio scelse il nome di Luigi Giannini, perché sarebbe stato “l’unico familiare (…) era per caso lo stesso cognome di uno dei ragazzi spalatini che lei aveva riconosciuto in quella fosse comune nel 1943” [12].

Ma se analizziamo la biografia dell’avvocato Luigi Giannini (medaglia d’argento al valore militare, ufficiale combattente delle armate alleate in Italia e nominato prefetto di Ferrara subito dopo la Liberazione) ci sorge qualche dubbio sul fatto che la scelta sia avvenuta “per caso”, dato che tra lui e la sua assistita alla fine vi furono diverse cose in comune, come scopriremo nel prossimo paragrafo. Egli esordì davanti alla Corte alleata che doveva giudicare Maria Pasquinelli con queste parole: “Prima di ogni altra cosa, signor presidente, io mi considero un italiano che difende un’italiana”.

La sua difesa [13] sostanzialmente si basò sulla richiesta venisse riconosciuto all’imputata di avere “agito in stato di necessità” e quindi di non essere punibile ai sensi dell’art. 54 del Codice penale, avendo commesso il fatto “per esservi stata costretta dalla necessità di salvare sé o altri dal pericolo attuale di un grave danno alla persona”. A questa istanza il presidente del Tribunale, colonnello Chapman, obiettò “Finora nessuna prova ha dimostrato la necessità della Pasquinelli di compiere l’atto. La reazione in ogni caso deve essere immediata. Se la difesa ha prove circa la necessità di uccidere, le porti”.

Giannini insisté nella sua linea di difesa sostenendo che l’imputata si era convinta che “per salvare le vite di coloro che erano minacciati di essere uccisi, qualora fossero passati sotto il dominio di un altro popolo, non vi era altra strada da tentare”. Ed ancora: “il pericolo, nel caso della Pasquinelli era rappresentato da tutto quanto ella sapeva per aver visto con i suoi occhi: le stragi di Spalato, gli infoibamenti istriani [14], ella paventava che uguale sorte potesse toccare agli italiani destinati a subire l’occupazione di un altro popolo (…) la Pasquinelli ebbe l’orrore di una così tragica sorte futura (…)”.

A queste tesi ribatté il prosecutor (il corrispettivo del Pubblico Ministero) capitano Leaning, sostenendo che comunque il “pericolo non era imminente” e che “comunque l’atto della Pasquinelli non poteva evitarlo. “da una parte c’era un generale intento al cambio della guardia, dall’altra una moltitudine non ben definita di presunte vittime”; “il suo gesto non ebbe nessuna utilità (…) perché ogni decisione era ormai avvenuta. Voleva uccidere e uccise”.

Ed il presidente rispose così lucidamente all’argomento difensivo dello “stato di necessità”: “il supposto pericolo deriverebbe dall’azione degli slavi a danno degli italiani, mentre la Pasquinelli ha ucciso un cittadino britannico, e questo elimina l’esistenza di un incombente pericolo allontanato”.

In conclusione l’imputata fu giudicata colpevole e condannata a morte, ma in sede di revisione (il corrispettivo dell’appello secondo il rito anglosassone) la pena fu commutata in ergastolo, considerando che, dato “la legge italiana non prevede la pena di morte, per questo le sarà salvata la vita” [15].

L’avvocato Luigi Giannini

Subito dopo lo svolgimento del processo Pasquinelli troviamo il nome dell’avvocato Giannini in una relazione “riservata”, datata 10/6/47 ed indirizzata dall’Ufficio staccato di Venezia al Prefetto Micali, responsabile per la Venezia Giulia del neo costituito provvisorio Ufficio per le Zone di Confine (UZC). Questo Ufficio, ricordiamo, aveva come scopo la “difesa dell’italianità” sia nell’Alto Adige, sia nella Venezia Giulia. Prendiamo alcuni stralci da questa relazione [16], che tratta della necessità di trovare una persona adatta a gestire la situazione triestina, dove “è necessario che tutti gli italiani siano cementati in un sol blocco da opporre a quello slavo-comunista, compatto ed unitario, e trarre così quella forza di resistenza tanto necessaria al sostegno ed alla difesa dell’Italianità della Venezia Giulia”, dove per arrivare a questa coesione non sono considerati adatti i partiti (che “dividono anziché unire i cittadini”) ma piuttosto la Lega Nazionale, che però dovrebbe avere come coordinatore un “fiduciario del governo”, con i requisiti “della popolarità, della conoscenza perfetta della situazione politica, della non appartenenza ai partiti politici, dell’unanime stima e fiducia della popolazione”. Questa persona, che “dovrebbe rappresentare la longa manus del governo, avere ampi poteri, indirizzare la vita politica nella lotta a sostegno dell’italianità della Venezia Giulia”, viene identificato nella persona dell’avvocato “Luigi Giannini, antifascista, colonnello dell’esercito italiano al seguito delle forze alleate, professionista di alto valore, di vasta preparazione politica, carattere energico, unanimamente stimato e particolarmente popolare quale difensore della Pasquinelli” [17].

Se poi l’avvocato Giannini abbia rappresentato la longa manus del Governo italiano nella Venezia Giulia (in un momento in cui, ricordiamo, la Venezia Giulia era amministrata da un Governo militare alleato) non siamo riusciti a ricostruire dai dati in nostro possesso, quindi teniamo in sospeso la questione e consideriamo un’altra coincidenza, cioè che dopo avere difeso Maria Pasquinelli l’avvocato Giannini si dedicò come parte civile al processo per l’eccidio di Porzûs (tragedia che può essere considerata anche una conseguenza dell’attività dell’agente Pasquinelli che aveva fatto di tutto per far collaborare l’Osoppo con i fascisti in funzione di un blocco antijugoslavo (e quindi contrario alla politica di cobelligeranza dell’Italia con gli Alleati, che non erano solo gli Angloamericani ma anche gli Jugoslavi).

Nei documenti dell’UZC relativi allo svolgimento dell’istruttoria per i fatti di Porzûs troviamo un carteggio tra l’onorevole friulano Carron “scelto come il canale attraverso cui la Presidenza del Consiglio gestiva anche il lato pratico di alcuni aspetti non trascurabili del processo affidandogli le sovvenzioni finanziarie dirette ad integrare, per così dire, le spese sostenute per le trasferte dai testi e dalle parti lese ritenute insufficienti” ed il prefetto Innocenti (capo dell’UZC).

Ed è molto interessante questo documento inviato in data 17/1/51 dal Prefetto Innocenti al Sottosegretario di Stato:

Oggetto: processo Porzus. (Richiesta di Don Aurelio De Luca)

In via riservata ma da fonte attendibilissima (procuratore Repubblica Udine) la Osoppo Friuli è stata avvertita che fra pochi giorni l’istruttoria per il processo Porzus sarà chiusa.

Non essendosi presentati ancora i documenti definitivi comprovanti le responsabilità dei capi Garibaldini arrestati un mese fà (sic) questi verranno rilasciati a piede libero perché assolti in istruttoria.

La documentazione comprovante la responsabilità degli stessi è nelle mani dell’Avv. Giannini di Trieste, il quale per altro non intende interessarsi ulteriormente del processo se non ha una assicurazione che verrà retribuito per l’opera prestata.

È necessario quindi che l’Avv. venga assicurato immediatamente che non mancheranno i mezzi per la ripresa del processo.

Si fa presente a V.E. che per tale questione la Presidenza ha già erogato la somma di L. 3.500.000, che tramite l’On. Carron sono già stati spesi nella prima fase del processo già svoltosi nel gennaio sc.a. a Brescia.

Per le immediate esigenze di cui sopra viene richiesto un contributo di almeno un milione e mezzo.

A questo punto il magistrato annota: “In calce all’Appunto si rileva la decretazione dell’autorizzazione alla spesa da parte del Sottosegretario [18].

In sintesi, se abbiamo capito bene, l’avvocato Giannini sarebbe stato in possesso di documentazione tale da incriminare gli accusati dell’eccidio di Porzûs, ma per consegnarla agli inquirenti avrebbe chiesto “un contributo di almeno un milione e mezzo” di lire dell’epoca: contributo che gli fu prontamente versato dalla Presidenza del Consiglio, che finanziava l’Ufficio Zone di Confine (ricordiamo che il sottosegretario che si occupava di questo Ufficio era l’allora giovane Giulio Andreotti, all’inizio della sua carriera politica).

E pensare che noi eravamo convinti che un legale incaricato di seguire un’istruttoria dovrebbe, trovandosi in mano documentazione necessaria alle indagini, consegnarle  agli inquirenti senza chiedere in cambio “contributi” economici.

Il figlio dell’avvocato

Il figlio dell’avvocato Giannini, Enrico, era militare del Gruppo di Combattimento Legnano, Corpo che operò, unica unità italiana, alle dirette dipendenze della 5^ Armata statunitense ed era comandato dal generale Umberto Utili.

Dopo avere combattuto nella zona di Bologna, Giannini rientrò a Trieste ai primi di maggio 1945, su un’ambulanza della Legnano che trasportava la salma del tenente triestino Galliano Marchioli, caduto a Bergamo il 3 maggio.

Giannini fu arrestato dagli Jugoslavi il 14 maggio e dopo alcuni giorni di detenzione fu trasferito all’interno della Jugoslavia, dove di lui ufficialmente si persero le tracce. I motivi del suo arresto non sono mai stati chiariti, ma c’è un fatto di cui tenere conto e che andiamo a narrare.

Il 7 maggio, durante il periodo di amministrazione jugoslava, una delegazione del CLN giuliano (composta dal presidente Antonio De Berti, Isidoro Marass, don Edoardo Marzari, Giovanni Paladin e Marcello Spaccini) che voleva uscire dal territorio controllato dagli Jugoslavi usò, per sfuggire ai controlli, proprio un’ambulanza che era appartenuta alla Legnano. Tale ambulanza diede addirittura un passaggio fino a Monfalcone ad un militare jugoslavo, in modo da avere un’ulteriore copertura; successivamente la delegazione raggiunse Venezia (dove ebbe degli incontri con i servizi di informazione italiani, con ufficiali angloamericani e con il CLN del Veneto), e poi andò a Roma, dove i membri furono ricevuti dal Presidente del consiglio Bonomi e da altri ministri, presente anche il triestino Bruno Astori (che era stato uno degli agenti di Usmiani a Trieste); infine dal Pontefice nella Biblioteca Vaticana. In seguito si recarono a Milano dove esposero “la grave situazione politica e militare determinatasi a Trieste e nella Venezia Giulia in seguito all’occupazione della regione da parte delle truppe di Tito”. Il risultato dei colloqui con l’allora ministro degli Esteri Alcide De Gasperi furono l’autorizzazione ed il finanziamento per installare un’emittente radiofonica “clandestina” che trasmettesse da Venezia (da un sito della Marina militare) verso la Venezia Giulia rimasta sotto amministrazione alleata.

Segnaliamo qui un documento datato 12/6/45, con il quale la 2^ Sezione dell’Ufficio Informazioni dello SMRE richiese al Quartier generale dell’aeronautica alleata un trasporto aereo da Roma a Milano per Spaccini, “in servizio temporaneo per la 2^ Sezione”, motivandolo come “rientro per ultimata “missione” [19]. Questa “2^ Sezione” era nota come Sezione Calderini, già sezione di spionaggio del SIM fascista e poi, collegata ai servizi britannici durante la Resistenza, aveva compreso in sé la missione Nemo e l’organizzazione Franchi, e nel dopoguerra una parte di essa diede vita alla Gladio, come scrive ancora il dottor Mastelloni:

“Più ufficiali che avevano militato in questa specifica struttura del Servizio di sicurezza militare (la Calderini, n.d.a.) nella fase finale dell’ultimo conflitto mondiale risultavano essere poi stati definitivamente incardinati nel SIFAR e quindi nel SID, con la attribuzione di funzioni proprio all’interno della Sezione che per anni ebbe a fungere motore dell’Operazione Gladio: la Sezione Addestramento Guastatori” (SAD) [20].

Dunque sarebbe stata la Calderini stessa ad organizzare la esfiltrazione dei rappresentanti del CLN giuliano da Trieste, utilizzando l’ambulanza della Legnano, il che dimostra che la longa manus dei servizi era ben radicata in questo territorio.

La detenzione e i rapporti con Antonio Santin

Tutti i biografi e gli agiografi di Maria Pasquinelli insistono molto sulla religiosità della donna, che per anni pagò messe in suffragio dell’anima della persona da lei uccisa (noi che siamo agnostici pragmatici non possiamo fare a meno di pensare che se non avesse ammazzato nessuno non avrebbe avuto alcun bisogno di pagare le messe in sua memoria, cosa che del resto ci appare piuttosto ipocrita), e che veniva visitata spesso in prigione dallo stesso vescovo triestino Antonio Santin (figura piuttosto controversa per le sue posizioni nazionaliste ed antislave ed i suoi rapporti ambigui con il fascismo prima e poi nel dopoguerra con l’irredentismo di destra), che oltre ad esortarla a chiedere la grazia con le parole: “Figlia mia, si decida ad uscire, tutti la stiamo aspettando!” [21], fu scelto come depositario del materiale relativo alla vicenda: “gli incartamenti con le deposizioni, l’arringa dell’accusa ed altro sono conservati in una banca di Trieste sigillati in una cassetta di sicurezza dove vennero depositati in accordo con Maria Pasquinelli da Monsignor Santin” [22].

Della sua religiosità però ci sia concesso dubitare, sia per il suo iniziale interesse per la “mistica fascista”, che non dovrebbe essere compatibile con la religione cattolica, sia per le parole “forse ho amato l’Italia più della mia anima”, sia soprattutto per il fatto di non avere mai manifestato il pentimento per l’atto omicida da lei commesso; fatto che non le impedì peraltro di continuare a ricevere la Comunione, in peccato mortale, si suppone, dato che la Chiesa cattolica concede di norma l’assoluzione solo al peccatore pentito.

Da imputata a testimone

“Pazzesco disegno di neo fascisti per liberare Maria Pasquinelli”, titolava il Corriere di Trieste del 25/5/47, ciò perché la condannata era stata citata come teste a difesa per il tenente della Decima Umberto Bertozzi (quello con cui aveva avuto i contatti per organizzare la missione di Cino Boccazzi), accusato di diversi crimini di guerra, tra cui la strage di partigiani rinchiusi nella caserma dei Carabinieri a Forno di Massa e bruciati vivi. Il processo era fissato a Vicenza ed il giornalista ipotizzava che la presenza della Pasquinelli “oltre Isonzo avrebbe un altro scopo e cioè quello di attirarla in una zona soggetta a sorveglianza dei carabinieri e della polizia italiana, per poi poterla liberare con un colpo di mano” [23].

Non accadde nulla del genere, né abbiamo trovato notizie della testimonianza che Pasquinelli avrebbe reso per Bertozzi, che fu peraltro condannato e godette dell’amnistia nel 1964 [24].

Successivamente l’ex insegnante fu teste a difesa nel processo contro Junio Valerio Borghese (15/12/47), processo che si concluse con la condanna ma l’immediata scarcerazione dell’imputato, grazie al condono degli anni di detenzione che sarebbero rimasti a carico del principe nero tolti gli anni di carcere preventivo.

La Corte prese atto, per valutare le attenuanti chieste dalla difesa, delle dichiarazioni di Pasquinelli che aveva parlato di accordi tra Borghese ed i capi osovani Bolla ed Enea, per sostenere che l’imputato aveva collaborato con la Resistenza.

Ma quando successivamente la Pasquinelli fu convocata come teste al processo per i fatti di Porzûs (1951), dove tale collaborazione avrebbe portato a mettere in cattiva luce i dirigenti osovani ed in un certo modo a giustificare la reazione dei garibaldini che operarono l’eccidio, vi fu un colpo di scena, come leggiamo nella Sentenza d.d. 30/4/54 della Corte d’Assise d’Appello di Firenze.

“La citazione del caso Pasquinelli fatta dalla difesa (dei garibaldini, n.d.a.) è controproducente. Vero è che, a quanto risulta dal processo a carico di Valerio Borghese, sembrerebbe che essa fosse stata introdotta nelle formazioni partigiane, per trattare un accordo con la X Mas, a mezzo di Bolla e di Enea. Ciò sembrerebbe gettare delle ombre sulla personalità dei due capi osovani”.

Però, proseguono i giudici, questa “narrazione” nel processo Borghese “era dipesa da errata verbalizzazione. La prova tranquillizzante dell’inesattezza del verbale è data dal contenuto di una relazione che la stessa Pasquinelli ebbe a consegnare al Presidente di quella Corte d’Assise, sostanzialmente difforme dal contesto della deposizione allora resa e conforme a quello della particolareggiata ed ampia testimonianza fatta dalla donna in questo procedimento. Dalla Pasquinelli si è appreso, in questo procedimento, ch’essa non ebbe mai alcun rapporto con Bolla e che invece con uno stratagemma riuscì ad avvicinare Enea, al quale ebbe a prospettare la possibilità di una presa di contatto con esponenti della X Mas, e ciò al fine di costituire un fronte unico contro gli sloveni”. Però questa “proposta” fu accolta “da Enea e dai suoi compagni (…) con un uragano di proteste”, ed a nulla valse ad “attenuare l’ostinata opposizione di Enea” il fatto che l’agente Pasquinelli gli avesse fatto presente “il grave pericolo che correva suo zio Raffaele, catturato dai tedeschi a Trieste e condannato a morte quale esponente del CLN, facendogli intendere che un suo arrendevole atteggiamento avrebbe quasi certamente potuto salvarle lo zio”.

Nel corso dell’udienza il Presidente del Tribunale aveva domandato alla teste come spiegasse tale difformità di verbalizzazione, e così rispose la teste:

“Non so spiegarle signor Presidente. Io sono nata a Firenze: eppure dal verbale risulta che io sia nata a Trieste. (…) Può darsi che il Cancelliere, visto che tutto era conforme, abbia poi fatto un riassunto di sua iniziativa”.

Considerando che la seconda verbalizzazione smentisce del tutto la prima, se diamo per buona la versione della teste, il Cancelliere non si sarebbe limitato a fare un riassunto, ma avrebbe stravolto completamente la testimonianza, operando in tal modo un falso negli atti processuali.

In questo modo la verità giudiziaria ha sancito che Borghese collaborò con la Resistenza attraverso Bolla ed Enea, però Bolla ed Enea non collaborarono mai con la X Mas di Borghese. Cose che accadono solo in Italia.

La grazia  

Abbiamo già accennato al fatto che Maria Pasquinelli non volle mai chiedere la grazia ai britannici, e per anni si rifiutò anche di inoltrare la domanda alle autorità italiane (del resto sembra che “Maria Pasquinelli venne consegnata al governo italiano perché scontasse la pena in Italia, ma a condizione che non le fosse mai concessa la liberazione anticipata” [25]).

Dopo 17 anni di detenzione, però, la detenuta inoltrò la domanda di grazia (28/5/64, che le fu concessa in settembre (la notizia viene data il giorno 19), firmata da Cesare Merzagora, allora Presidente della Repubblica supplente a causa del malore del presidente in carica Antonio Segni, causato probabilmente dal tintinnare di sciabole del piano solo del generale De Lorenzo [26].

E oggi?

È stata definita in mille modi. Ne hanno fatto un idolo. L’hanno confusa con il simbolo dell’Italia ‘mutilata’ dal trattato di pace di Parigi. È ancora oggi richiamata in molti siti web di ispirazione neofascista e neonazista. È “la maestrina d’italiano”, il “coraggio” personificato, il “fiore nato da un pantano”, il simbolo della destra per il sociale e di tutti i veri fascisti vecchi e nuovi che non vogliono morire.

Ma a leggere i documenti della storia che, grazie a Dio, ci indicano le strade della verità e dei fatti umani , il giudizio che ne possiamo trarre è che Maria Pasquinelli fu tutt’altra cosa che un’eroina. Coperta da apparati che resistevano e si riorganizzavano nel nome della lotta cosiddetta antibolscevica, fu in realtà una donna che si prestò semplicemente a realizzare una missione omicida che le consentirono di fare [27].


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