Li ho ascoltati tutta la sera conversare con quel rispetto tipico del nipote dinanzi ai nonni, che ti donano la loro memoria preziosa. Sedimentavo in immagini tutti i loro ricordi, recintati nel cuore di tre vecchi amici che davanti o dietro la macchina da presa non avevano mai smesso di divertirsi. E quando Mario Monicelli ha capito che il divertimento era finito, si è gettato dal quinto piano di un ospedale romano prendendosi gioco di noi. Sembra una scena censurata del goliardico Amici miei, ereditato dal compianto Pietro Germi. Una scena tragica in cui coabitano il cinismo, la severità, l’ironia e l’intellettualità dell’ultimo grande maestro del Cinema italiano del ‘900.
L’ho perseguitato per anni, in giro per l’Italia e all’estero, e ogni scusa era buona per strappargli un aneddoto: Monicelli mi raccontò a spizzichi e bocconi di Totò sul set; mi rimproverò perché la mia generazione voleva filmare traumi che non le appartenevano; ammise che il segreto del successo della commedia all’italiana tra gli anni ’50 e ’60 era nell’amicizia e nella complicità tra registi, attori, sceneggiatori. Il segreto era tutto lì, è inutile girarci intorno.
Ho visto tutti i suoi film, ma due pellicole in particolare mi hanno lasciato una bella lezione. La grande guerra mi ha convinto che i veri eroi sono invisibili come il personaggio lavativo e strafottente di Sordi ; Un borghese piccolo piccolo mi ha fatto prendere le distanze dal tipico “borghese cacasotto”, che continuo ad incrociare e ad evitare puntualmente nella mia vita. Il piccolo uomo meschino, che come Sordi si nasconde dentro un paio di baffi, lì seduto nella poltrona del suo salotto, circondato da gingilli, vincente nel suo piccolo ranch e sconfitto ovunque, servo della famiglia imbalsamata con il sedere sporco di cacca. E Mario Monicelli mi ha insegnato che nessuno gliela toglierà dal culo, perciò il borghese resta “piccolo piccolo”.