Non la sinistra, le toghe rosse o le cancellerie internazionali. Battuto, mai realmente sconfitto, in diciotto anni sulla ribalta della politica italiana Silvio Berlusconi ha faticato nel trovare un vero antagonista. Mai stanco di gridare al pericolo rosso o dipingersi vittima della perfidia giudiziaria, il Cavaliere ha avuto gioco facile nel dipingere i Prodi o i Veltroni del momento come ostaggi delle sinistre radicali e aprioristicamente antiberlusconiane. La crisi finanziaria lo ha costretto al passo indietro eppure, in equilibrio instabile sulle fondamenta di un partito allo sfascio, Berlusconi ha avuto buon gioco nel dipingersi vittima di complotti internazionali, facendosi di tanto in tanto rimpiangere ai nostalgici della leadership carismatica.
Dal dorato esilio a Malindi, come il Napoleone dell’Elba ha pazientemente atteso che le primarie del Partito Democratico bocciassero quel Matteo Renzi così mediaticamente simile al Berlusconi della discesa in campo, rivoluzionario al punto da ripresentare quella svolta liberale solo promessa e mai mantenuta dal Cavaliere. Mentre tra le fila del PDL si scatenava una corsa all’eredità al limite del patetico, un coup de theatre lo ha riportato sulla scena: l’ultima disperata battaglia, coltello fra i denti e lancia in resta, attorniato dai luogotenenti più fedeli. Come il maresciallo Ney pronto a servire ancora il suo vecchio generale, Angelino Alfano stacca alla spina all’esperienza del governo Monti e insieme ai caporali pontifica sul senso di responsabilità istituzionale di un partito tenuto in vita con accanimenti terapeutici al limite del masochismo. Stretto nella morsa della maggioranza atipica, il Berlusconi rivitalizzato dalla cura Briatore torna in scena e offre la sua leadership sull’altare della salvezza nazionale.
Con la strada per Waterloo già ampiamente tracciata, i cento giorni che dividono ora l’Italia dal voto sarebbero stati più che sufficienti per punzecchiare Bersani con il vecchio adagio dei comunisti in agguato e surclassare Grillo con dosi massicce di populismo euroscettico, aizzando le folle contro l’IMU.
Non sarà così: con un gesto simbolo di alta responsabilità istituzionale – di lontana memoria – Mario Monti ha bruscamente offuscato i disegni di gloria, togliendo ad Alfano e Berlusconi l’ultima parola sul governo tecnico e spegnendo sul nascere le ultime convulsioni di un centrodestra moribondo. E’ il professore la vera nemesi di Berlusconi e del berlusconismo: un anno fa l’Italia fu traumatizzata dal brusco cambio di passo, ritrovandosi in un clima di sobrietà congruo con la gravità della situazione, affascinata dall’ironia tutta anglosassone di un premier così lontano dallo stereotipo del politico nostrano.
L’insistenza sulle politiche di rigore finanziario e il disagio sociale che ne è scaturito hanno offuscato la vera sfida del governo Monti, quella di affrontare le riforme di una struttura economica fallata e largamente compromessa in un arco temporale assolutamente insufficiente. Riuscire laddove un sistema partitico privo di spina dorsale ha miseramente fallito. Un sistema di partiti così diverso dalla rettitudine istituzionale di Mario Monti che, a poche ore dall’annuncio delle sue dimissioni, ci si chiede come per un intero anno il Paese abbia saputo reggersi su una maggioranza “strana”, per usare l’eufemismo più in voga, ma in realtà assolutamente incompatibile con l’obiettivo di allontanare l’Italia dal baratro e portarla più lontano possibile dal caos economico e sociale cui si è pericolosamente avvicinata.
A guida di una coalizione che lo ha per larga parte scambiato per il portiere tappabuchi nelle partite di calcetto (ad eccezione di chi del Monti bis ha fatto una vera religione), Mario Monti ha effettivamente salvato il Paese: riforme dure e radicali accompagnate ad un ritrovato ruolo di mediazione in Europa hanno allontanato l’Italia dall’infamante (per noi e per loro) etichetta di “prossima Grecia”. All’ex commissario europeo si è pure chiesto di risollevare l’Italia e riportarla sulla strada dello sviluppo, ma è proprio su questo punto che si è consumata la profonda divisione tra governo tecnico e la maggioranza di “irresponsabilità nazionale”.
L’Agenda per la crescita è caduta sotto i colpi delle pressioni corporative e le doverose forzature che Monti ha mostrato, ad esempio, sulla concertazione con le parti sociali per riformare il mercato del lavoro non si sono invece viste in materia di liberalizzazioni o sull’uniformità di una spending review progressivamente rallentata dalle più disparate beghe burocratiche. Confidando oltre il lecito nei partiti per definire una soluzione alla crisi, il governo tecnico ha finito per ottenere consensi solo sull’aumento della tassazione senza agire come dovuto sul riequilibrio della spesa pubblica. La discesa dello spread sotto i 300 punti base è suonata come l’ultima campanella dell’anno scolastico e la maggioranza, che invece di seguire le lezioni giocava sottobanco con i premi elettorali, è saltata per aria alla prima occasione utile. Il ritorno di Berlusconi unito alla vittoria di Bersani alle primarie del PD hanno convinto i due maggiori partiti a prendere subito la via delle elezioni, spiazzando la cancellerie di mezza Europa e riportando la paura sui mercati.
L’annuncio delle dimissioni del premier, arrivato nella tarda serata di ieri al termine di un lungo colloquio con Giorgio Napolitano, è il gesto di un uomo indisposto a permettere che un anno di impegno civile, pur costellato da numerosi errori di calcolo, venga oscurato da becere giochetti elettorali e gride populiste. La ricandidatura di Berlusconi rischiava di riportare una scheggia impazzita nel quadro politico e Mario Monti ci appare oggi come un duca di Welligton capace di fermare l’ultimo folle ritorno di un costume elettorale che l’Italia non può avere l’arroganza di assumere di fronte al resto del mondo.
Risolutamente indisponibile a cedere a questa classe politica il monopolio della responsabilità istituzionale, Monti velocizzerà l’approvazione della legge di stabilità e si farà da parte. L’Italia si stava salvando, scivolando e ferendosi più volte, ma sempre reggendosi sulle proprie gambe. Se dopo un anno c’è ancora chi invoca il rischio di commissariamento esterno, la colpa non è certo di Mario Monti.