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«Ecco, sono ritornato a casa ancora una volta; ma ora so che laggiù, quello tra il Donetz e il Don, è diventato il posto più tranquillo del mondo. C’è una grande pace, un grande silenzio, un'infinita dolcezza. La finestra della mia stanza inquadra boschi e montagne, ma lontano, oltre le Alpi, le pianure, i grandi fiumi, vedo sempre quei villaggi e quelle pianure dove dormono nella loro pace i nostri compagni che non sono tornati a baita».
Questo è l’epilogo dell’ultimo racconto di un libro di Mario Rigoni Stern (1921-2008), Ritorno sul Don. Molti di noi hanno letto Il Sergente nella neve, o magari avranno visto nel 2007 lo spettacolo di Marco Paolini. Rileggendo le pagine di Rigoni Stern, ho avuto l’impressione di leggere le parole di uno scrittore vero, di un autentico letterato. E lo dico perché nel 1953, presentando Il Sergente appena uscito per Einaudi, Elio Vittorini scriveva che probabilmente Rigoni Stern poteva scrivere solo di cose che gli erano realmente accadute, lasciando intendere che non fosse un vero scrittore.
Giudizio autorevole, sì, ma forse riduttivo; d’altra parte, sfogliando le storie di Ritorno sul Don, si ha l’impressione, è vero, di leggere le parole di un uomo che parla di cose che conosce bene perché accadute a lui o perché a lui note. Ma c’è anche molta letteratura; Rigoni Stern non è stato solo un alpino, un amante della natura, ma uno scrittore autentico.
Ritorno sul Don, libro uscito nel 1973, è un viaggio nella memoria dell’autore, ma non solo. È un viaggio nello spazio. In quelle pagine torna il racconto drammatico (ma talvolta timidamente epico) della ritirata dalla Russia, ma vi sono anche le vicende di altre persone, che hanno combattuto in guerra, sia in Italia che in Russia. C’è la storia di quel caporale di un gruppo di alpini italiani che, trovato rifugio presso un’isba in Russia, incontra un uomo, un compaesano, che scopre essere suo padre. Questi aveva combattuto per gli austriaci nel 1914 (essendo nato in Trentino), poi era scappato in Russia, e in Italia nessuno aveva saputo più nulla di lui. E quest’uomo aiuta gli italiani guidati dal figlio ritrovato, li fa fuggire, affinché non cadano in mano ai partigiani.
C’è la storia degli ebrei mandati al confino ad Asiago che, tra il 1942 e il 1943, stringono amicizia con gli asiaghesi, che li ospitano nelle loro case. Poi, dopo l’8 settembre ’43, questi ebrei fuggono tutti, e di loro si sapranno notizie frammentarie: qualcuno è morto, qualcuno disperso, qualcuno trucidato alle Ardeatine, qualcuno è sopravvissuto. E poi c’è la storia del “Moretto”, un ragazzo, un conoscente dell’autore, che ha fatto la Resistenza tra Veneto e Trentino e che nel 1944 scompare. L’autore e altri suoi compagni di lotta, però, non si rassegnano a questa scomparsa e lo cercano, finché nel 1946 ritrovano il suo corpo in un vallone della Valsugana: «Lo portammo giù tra la pioggia gelida e la grandine; alla chiesetta degli alpini del Bassano ci fermammo per ripararci dal temporale. Sul camion lo coprimmo di fiori gocciolanti e due giorni dopo ebbe un funerale che nemmeno un re avrà mai».
Le pagine dei racconti di Ritorno sul Don scorrono via delicate ma intense: la guerra in Russia è sempre sullo sfondo delle vicende narrate; la morte aleggia continuamente, ma vi è anche la vaga idea di poter un giorno ritrovare tutti gli amici scomparsi. La coscienza di essere uno dei pochi sopravvissuti, una specie di intruso, è poi sempre viva nello scrittore, che mai si compiace di questa sua “fortuna”. Rigoni Stern scrive con un tono dimesso, schietto, come se si sentisse in colpa per avercela fatta, mentre il ricordo dei suoi commilitoni e compagni morti è assai pungente, indelebile dalla sua anima.
Chi non ha vissuto esperienze al limite tra vita e morte non può capire certi sentimenti; può solo intuirli. E immaginare che il ritorno a casa, il ritorno alla normalità, non dia alcuna vera gioia. Perché il trauma è stato enorme, il terrore per il pericolo scampato è vivido, come il dolore per quelli che non ce l’hanno fatta. E poi, sembra suggerire l’autore, si torna alla “normalità” (questa parola così deprimente) in modo banale. Nel Ritorno sul Don, l’autore ricorda che, dopo la guerra, un giorno sente un rumore forte provenire da un bosco; sussulta, ma poi s’accorge che si tratta del rumore causato da una scure, e capisce che la guerra è davvero finita, che non è il rumore di una mitragliatrice. E così torna alla vita: «Una mattina sentii battere una scure sul fianco del monte: un rumore nuovo. La scure di un legnaiolo, non la mitragliatrice, e lo avevo percepito».
E poi, malgrado tutto, il tempo scorre. La vita va avanti. Dopo tanti anni, il freddo non è più un’ossessione e la neve di Asiago è tornata a essere un’amica, sulla quale Rigoni Stern ama andare a sciare; ma lui sa che deve fare i conti con il proprio passato, con se stesso, perché tante cose sono rimaste in sospeso. E allora, dopo quasi trent’anni, decide di tornare dove ha combattuto, in quella zona della Russia (allora era l’URSS) tra la città di Charkov e il fiume Don, dove Rigoni Stern combatté con i suoi compagni alpini e da cui ebbe poi inizio la tremenda ritirata del gennaio 1943. L’ultimo racconto del libro, eponimo dell’intera raccolta, descrive proprio questo viaggio nel tempo dell’autore, questa immersione nei suoi ricordi e nel suo spirito.
È un viaggio diverso da quello di trent’anni prima: ora si viaggia su un treno comodo, si attraversa l’Ucraina con agio, al caldo, si arriva a Kiev in autunno; ma l’autore non vuole fare i percorsi turistici, bensì tornare dove sono sepolti i suoi compagni, dopo Charkov, verso il Don, per ritrovare i luoghi, e riassaporare quei tempi, pieni di drammi, è vero, ma anche di amicizia, di condivisione di un’avventura, tragica e infinita. Le autorità sovietiche gli offrono una macchina, un’interprete, un autista. Mario Rigoni Stern e la moglie si dirigono verso quei posti; sono zone spesso ancora isolate, dove immense praterie si alternano a piccole città. Ma i ricordi della guerra ci sono ancora, nei luoghi e nei abitanti. Per l’autore quasi nulla è mutato: riconosce i luoghi, vede i segni degli scavi delle loro trincee, rievoca con nostalgia e dolore quei giorni, il rumore degli spari, la concitazione della battaglia, le disavventure che sono capitate a lui, ai suoi compagni. Rievoca la morte, ricorda che era una possibilità sempre viva, sempre sul punto di realizzarsi, eppure raramente avvertita dai soldati. La morte era sugli alberi, dietro un cespuglio, sul torrente gelato, nella neve. Ovunque e in nessun luogo. La morte come presenza costante, quasi discreta e talvolta, per qualcuno, come porto di pace. Forse era inevitabile non temerla e diventare fatalisti. Nel Sergente, durante un combattimento, l’autore ricorda di essere rimasto un po’ distaccato dagli altri suoi compagni; le pallottole fischiano attorno a lui. E lui pensa ogni volta che sente uno sparo “Adesso muoio…”, e trattiene il fiato. È questa l’esperienza della morte: un attimo con il respiro sospeso e il cuore fermo? Ma l’autore non morirà; tanti altri, invece, abbandoneranno la vita. Rigoni Stern, in Ritorno sul Don, ricorda, con leggerezza, senza odio, né risentimento, i tanti compagni sfiniti dal freddo e dalla fame, che a un certo punto si adagiavano nella neve per riposare, e non si svegliavano più.
È interessante notare che sono spesso le voci che l’autore rievoca, i rumori, gli odori. E si capisce quanto sia difficile essere dei sopravvissuti: si avverte in sé un senso di colpa, irrazionale eppure vivido, che non dà quasi mai tregua. Chissà allora se è davvero un privilegio essere sopravvissuti a quelle tragedie. Primo Levi sapeva che la sopravvivenza era frutto di casualità, di fortuna, non di merito e che dai lager erano tornati spesso i meno onesti, quelli che erano riusciti a fare di più i “furbi”, a sgomitare per andare avanti. In Primo Levi questo senso di colpa non si è mai calmato e l’ha indotto a uccidersi nel 1987. Anche Jean Améry si è suicidato tanti anni dopo essere tornato dal lager, nel 1978.
Rigoni Stern ha combattuto e lottato per salvarsi; dopo la ritirata di Russia, è stato prigioniero in un campo di concentramento tedesco per un anno: per questo anche lui è un sopravvissuto che, dopo quasi trent’anni, cerca di tributare ai suoi compagni gli onori che meritano: «Ecco, da qui, a ogni gruppo di isbe è legata la nostra storia; una storia di alpini della Julia, della Cuneense, della Tridentina, del Cervino. Siamo passati per ogni pista e i nostri nomi gridati nella tormenta di queste steppe. Morte, speranza, disperazione, fatalismo. Chi potrebbe dire tutto? Nessuno. Nessuno saprà tutto. E per tutti e per ognuno una storia diversa. Ed eravamo in tanti».
E quando si trova da solo, in un tramonto autunnale freddo, dai coloro sgargianti, l’autore, a un certo punto, nomina uno a uno i suoi compagni, nella solitudine silenziosa della steppa russa. Loro non gli rispondono a voce, ma lui ne avverte la presenza, li sente dormire, riposare sotto quella terra. Ed è come se finalmente trovasse un attimo di pace, come se avesse saldato un debito, come se, per un momento, si fosse unito nuovamente a loro, per bere vino, mangiare polenta, dire battutacce nei vari dialetti italiani, come se alla fine tutti, tranquillamente, sani e salvi, fossero tornati a baita.
Ma non è così; e poi è notte, l’interprete, l’autista e sua moglie sono stanchi, vogliono ritornare in albergo. Rigoni Stern risale in automobile, però forse si sente meno solo e meno incompreso. E può salutare i suoi compagni, quelli che non sono arrivati a baita: “Dormite in pace amici valtellinesi, in questo silenzio, in questa terra nera, in questo autunno dolcissimo. Chino la testa e poi faccio un cenno con la mano: - Ci ritroveremo un giorno. Arrivederci”.
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