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Marisol

Da Ultimafila22

di Giacomo Pagone

Tra me e Marisol non c’era niente di fisico. Lei era un donnone di cento chili che fumava sigari e beveva rum, mentre io ero un esile bibliotecario curvato dalla noia della mia vita.

Questo, però, mia moglie non lo sapeva. Giusy, mia moglie, era un’indaffarata donna in carriera, troppo impegnata a gestire i gravosi incarichi lavorativi e allo stesso tempo troppo distratta per notare la mia tristezza.

Marisol, dicevamo. Marisol era un uragano di vita, un animo da ballerina racchiuso in un corpo sgraziato. Non fraintendetemi, non era brutta: aveva due occhi vispi e pieni di gioia, i capelli castano chiaro, che prendevano tonalità ancora più chiare se illuminati dal sole, e un seno enorme, che le conferiva un’aria da antica matrona.

Il quartiere dove abitavamo era nella periferia povera della città. Io e Giusy ci eravamo trasferiti lì appena sposati, quando io ero solo un noioso bibliotecario e lei una neolaureata con pieni voti, in cerca del primo lavoro. Con il tempo lei è diventata, come detto, una indaffarata donna d’affari, mentre io sono rimasto sempre il noioso bibliotecario.

Il quartiere si poteva definire pittoresco, in un certo senso. Uno spaccato di vita quotidiana del ventunesimo secolo, popolato da prostitute e spacciatori di notte, e da spacciatori e prostitute di giorno!

Marisol faceva proprio il lavoro più antico del mondo. O meglio, ci provava, dal momento che la sua mole intimoriva i clienti. Così, di giorno, aveva trovato anche un lavoro come commessa in un minimarket della zona. I soldi erano pochi, ma il buonumore non mancava mai.

Essere un bibliotecario era quanto di più triste potesse desiderare qualsiasi uomo i cui sogni da scrittore si erano infranti sui reiterati “No, grazie” delle case editrici. I miei scritti non interessavano. Erano noiosi, senza anima, morti. Fu così che fui costretto a sbarazzarmi delle mie aspirazioni, per intraprendere un lavoro che, in un modo o nell’altro, aveva a che fare con i libri. Passare sette ore al giorno in una biblioteca comunale, circondato da migliaia di libri non faceva altro che aumentare la mia malinconia e ingrossare le fiamme della pira funeraria con cui avevo detto addio ai sogni di una vita.

La facilità con cui Giusy trovò un lavoro redditizio e i veloci progressi della sua carriera mi convinsero che non c’era più posto per me in questo mondo. Erano molte le sere in cui ero costretto a mangiare da solo, davanti al televisore acceso, perché Giusy era stata trattenuta in ufficio da pratiche urgenti. Ero certo che non mi tradisse. E del resto, che motivo ci sarebbe stato di continuare a vivere ancora con me, dal momento che era lei che portava i soldi a casa? Ero anche certo, però, che, prima o poi, si sarebbe stancata di tornare in quella squallida palazzina grigia a tre piani, in quel quartiere malfamato, trovando un inutile marito-soprammobile seduto sul divano.

Ero pronto a farla finita. Avrei detto addio alle mie disgrazie, ai miei malumori e ai miei sogni infranti.

Una sera di marzo, dopo la solita telefonata di Giusy, che mi avvertiva che sarebbe rimasta in ufficio ancora qualche ora, decisi di aver percorso abbastanza strada, su questo folle treno chiamato vita. Scrissi poche righe motivando il mio gesto con la volontà di non voler rovinare anche la sua di esistenza, quindi uscì dall’appartamento, in direzione del terrazzo.

Giunto sul terrazzo, da bravo bibliotecario, organizzai il da farsi. Mi avvicinai, poi al parapetto per guardare giù in strada, ma la notte era buia e priva di luna, e l’unico lampione della strada era stato “spento” da un proiettile vagante, qualche giorno prima. Era strano pensare all’assurdità con cui cercavo di calcolare con esattezza l’altezza del palazzo. Che importava, ormai, in quel momento? Salì sul parapetto e sentì una gelida corrente attraversarmi il corpo. Ero pronto a buttarmi, quando alle mie spalle sentì una voce divertita:

“Ehi hombre, io non lo farei se fossi in te!”

Mi girai in direzione della voce, ma in quella notte di inchiostro non riuscì a scorgere altro che la brace di una sigaretta accesa.

“Chi sei?” domandai.

“Non è così alto il palazzo e cadendo…” e qui fece una pausa molto teatrale, durante la quale la brace intensificò la luce, segno che stava inspirando il fumo. “…E cadendo ti romperesti solo le ossa. Non riuscirai ad ucciderti, se ti butti da lì” concluse, quindi vidi la brace della sigaretta rimbalzare a terra, segno che l’aveva buttata via.

Feci finta di niente. Provai ad ignorare le sue parole, voltandomi, nuovamente, verso il vuoto. Decisi di iniziare a contare da tre e poi spiccare il volo una volta arrivato a zero. Vanamente, provai a pensare a qualcosa, nella mia vita, che potesse salvarmi dal baratro. Non mi venne niente in mente, così iniziai il conto alla rovescia. Tre, addio ai miei sogni infranti… Due, addio al mio lavoro frustrante… Uno, addio al mio matrimonio malinconico…

Ero deciso a lanciarmi, quando, all’improvviso, sentì una presa salda afferrarmi per il colletto della camicia e trascinarmi a terra, sul duro pavimento del terrazzo.

Non fui in grado di dire nulla. Il cuore galoppava nel mio petto e l’adrenalina aveva annebbiato i miei pensieri, così, quando la voce che mi aveva sconsigliato di buttarmi prima, e mi aveva impedito di farlo dopo, mi disse “Andiamo a bere qualcosa, stupido”, non potei far altro che obbedirle.

Non appena rientrammo nel palazzo vidi chi era che mi aveva slavato la vita, condannandomi a continuare quella vuota esistenza. Era un donnone con la coda di cavallo, un giubbotto con le piume e dei pantaloni verde pastello. Ai piedi indossava delle ridicole pantofole a forma di topo.

Entrammo nel suo appartamento al terzo piano. Appena aperta la porta un grosso gatto dagli occhi gialli ci venne incontro.

“Hola, niño, ti sono mancata?” chiese, abbassandosi per prendere in braccio il felino.

Dopo aver accarezzato il micio, la donna si voltò, per la prima volta, verso di me, mettendomi il muso dell’animale vicino al mio viso.

“Lui è Gato. E’ il suo nome. In spagnolo significa gatto” mi disse.

“ Però, che fantasia!” dissi, cercando di scansare la bestiola che mi squadrava con quei suoi occhietti gialli.

“Senti, io non so cosa…” provai a dire, ma lei non mi fece parlare.

“Sta zitto e siediti sul divano, ti porto qualcosa da bere”

Qualche istante dopo la vidi rientrare con un sigaro cubano spento in bocca, due bicchieri vuoti ed una bottiglia piena di rum.

“Questo viene direttamente da Cuba” disse, scuotendo la bottiglia. Riempì due bicchieri, si accese il sigaro, soffiandomi in faccia la prima boccata di fumo, quindi si adagiò sulla poltrona su cui sedeva, e mi disse:

“Inizia dal principio. Di solito funziona”

Chi era quella sconosciuta per intromettersi nella mia vita, decidere di prolungare la mia agonia e ora ordinarmi di raccontarle tutto? Ancora oggi non so se a farmi parlare a raffica per le successive due ore fu il rum, la mia tristezza, o la paura che mi faceva il suo corpo gigantesco.

Le raccontai tutto e dopo non potei ignorare una sensazione di benessere che tornava a farmi scorrere il sangue nelle vene. Quando finì di parlare, lei scoppiò in  una grassa risata, mi diede qualche pesante pacca sul ginocchio e, dopo avermi riempito nuovamente il bicchiere di rum, mi disse:

“Prendi un sigaro!”

“Mi dispiace,” risposi “ma non fumo. Né sigarette, né, tantomeno, sigari” appena pronunciai quest’ultima parola lei mi lanciò uno sguardo truce.

“Hombre, ascoltami bene perché te lo dirò una sola volta. Questo non è un sigaro qualunque! Questo è un Cohiba, e nemmeno il Padreterno in persona si sognerebbe mai di rifiutarne uno o, addirittura, trattarlo come un sigaro normale!”

Intimorito, accettai.

Mi disse di chiamarsi Marisol. Era nata a Cuba, a Santa Clara, per la precisione, città dove, mi raccontò, Ernesto Guevara dela Serna, il “Che”, mise a segno una colpo fondamentale e definitivo per la vittoria della Revoluciòn di Fidel Castro.

Era stata costretta ad abbandonare la sua amata isola quindici anni prima, per cercare lavoro all’estero. Aveva fatto la cameriera in un fast food in Messico, la centralinista in Francia, la donna delle pulizie in Spagna, e, una volta arrivata in Italia, non trovando altro lavoro, era finita a vendere il suo corpo in strada.

Parlava e rideva forte, intervallando il racconto con aneddoti strani e divertenti che le erano successi, in giro per il mondo. Tutte le difficoltà incontrate non le avevano tolto il sorriso, era sempre rinata dalle proprie ceneri, come una coraggiosa fenice di cento chili!

D’un tratto la mia tristezza sparì, lasciando il posto ad un senso di nausea e facendomi sentire immensamente stupido. L’avrei davvero fatta finita se non mi avesse salvato Marisol? Cosa c’era, poi, di così irreparabile nella mia vita? Quando tornai a casa, quella sera, bruciai il foglio di carta in cui declamavo la mia tristezza e la mia voglia di morire. Quando Giusy tornò a casa la accolsi a braccia aperte, le preparai un bagno caldo con tanta schiuma, quindi entrai anch’io nella vasca, per trascorrere con lei una notte di ritrovato amore.

Iniziai a trascorrere tutto il tempo che passavo a casa, nell’appartamento della mia amica. Risposi allo stupore di Giusy presentandole Marisol, ma non accennai mai al modo in cui ci eravamo conosciuti.

Una sera, prima di andare a letto, trovai Giusy, nuda, davanti allo specchio. Quando mi vide divenne rossa dall’imbarazzo, ma non poté fare a meno di aprirmi il suo cuore.

“Secondo te sono troppo magra? Sono poco femminile?”

Scoppiai a ridere. Sicuramente, pensai, crederà che mi sia innamorato di Marisol. La rassicurai dicendole che il suo corpo era perfetto così come era e che di Marisol amavo solo l’esplosiva e contagiosa allegria. Avrei dovuto spiegarmi meglio, lo so. Lo capisco solo ora, ma, ormai, quel che è fatto è fatto.

I mesi passavano sereni, ogni volta che potevamo io e Giusy passavamo dei fine settimana in campagna o all’estero: Parigi, Londra, Dublino, Madrid. Nel nostro rapporto si era riacceso il fuoco dell’amore e della passione.

Durante la settimana, però, quando Giusy era a lavoro, tornato dalla biblioteca, trascorrevo più tempo nell’appartamento di Marisol che nel mio. Parlavamo di tutto, del suo lavoro, del modo in cui ci eravamo conosciuti, delle sue disgrazie e dei miei sogni infranti. Scherzavamo su ogni cosa, senza imbarazzo.

Un giorno, però, Giusy ottenne una promozione e tornò a casa prima del previsto per festeggiare. Quando entrò a casa e non mi trovò chiamò sul mio cellulare. Quando si accorse che il telefonino squillava sul divano del nostro appartamento, si rese conto che l’unico modo per contattarmi era salire a casa di Marisol, ma lei non lo fece.

Qualche ora più tardi, quando rincasai, la trovai seduta al tavolo della cucina, davanti ad una bottiglia di champagne ormai calda e ad una torta alla panna sciolta. Mi chiese dove fossi stato e io le risposi.

“Sei sempre da Marisol. Marisol ha fatto questo, Marisol ha detto quest’altro. Lo sapevi che Marisol è stata in questo posto? Non fai altro che parlare di lei. Cosa ha lei che io non ho?”

Ignorai quel breve sproloquio dettato dalla gelosia e le domandai cosa avremmo dovuto festeggiare. Mi disse della promozione, quindi si alzò e andò in camera da letto. La raggiunsi dopo aver messo la bottiglia e la torta nel frigorifero.

“Voglio andare via da questo quartiere” mi disse.

“Perché?”

“Possiamo permetterci di affittare un appartamento in centro. Odio questo quartiere, odio vivere qui”

“Dormi, ora, ne riparleremo domattina” le dissi, terrorizzato all’idea di recidere il legame con Marisol.

Passarono un paio di settimane in cui i rapporti con Giusy tornarono ad essere quelli precedenti alla notte del mio fallito suicidio. Io cercavo di non pensarci e mi rifugiavo nell’ubriacante delirio di vita di Marisol.

Un giorno però, mentre sorseggiavamo rum fumando i nostri Cohiba, sentimmo un frastuono assordante provenire dal pianerottolo. Qualcuno urlava e ben presto riconobbi la voce di Giusy che proferiva insulti irripetibili verso la mia amica. Quando aprì la porta, furioso per il suo comportamento, Giusy mi venne incontro con un coltellaccio da cucina, ed io lanciai un urlo di terrore nel vedere il luccichio della lama illuminata dal fioco neon del pianerottolo. Con un’abile mossa mi scansò e proseguì velocemente verso il salotto, continuando a ripetere frasi sconnesse e insulti.

Ripresomi velocemente dallo spavento, la raggiunsi di corsa nel salotto, appena in tempo per saltarle addosso, facendole cadere il macabro coltello dalle mani. In tutto ciò, Marisol, era rimasta beatamente seduta alla poltrona, sorridendo, sorseggiando rum e aspirando dal Cohiba.

“Ti odio, ti odio, maledetto! Cosa ha lei che io non ho? Cosa? Dimmelo, maledetto, dimmelo!” urlò Giusy, scoppiando, poi in un pianto isterico e disperato.

Incapace di aprire la bocca guardai Marisol e le annuì col capo. In un attimo mi fu chiaro quello che avrei dovuto fare. Presi Giusy, ancora scossa dal pianto, in braccio e la adagiai sul divano. La baciai sulla fronte, le andai a prendere un bicchiere d’acqua e, quando tornai, iniziai a raccontarle tutto. In un attimo mi ritrovai a parlarle delle mie frustrazioni, della mia depressione, dei miei sogni infranti, del mio tentativo di suicidio e di come Marisol si era rivelata la cura a tutti i miei mali. Quando finì di parlare lei mi guardò non riuscendo a trattenere le lacrime, quindi si girò verso Marisol.

“Mi dispiace. Io non lo sapevo. Io credevo…” ma non riuscì a finire la frase che scoppiò nuovamente a piangere, questa volta consolata dal forte abbraccio di Marisol.

“Su, non è niente! Non piangere più niña!” disse la fenice cubana, sorridendo.                                                                                                                                                                                                                                                                                                  

Ed eccomi qui, ora, a raccontare della mia nuova vita. Alla fine io e Giusy ci siamo trasferiti in centro. Ora viviamo in un appartamento più grande e luminoso. Io ho ripreso a scrivere, e, questa volta, sembra che tutto andrà bene: i miei racconti sono piaciuti ad una casa editrice e presto verranno pubblicati. La ritrovata gioia di vivere donatami dalla mia salvatrice mi ha permesso di vedere, e raccontare, il mondo in modo diverso. Marisol è tornata a Cuba, a Santa Clara. Andiamo a trovarla ogni anno, e lei non ci lascia mai partire senza un buon rifornimento di rum e Cohiba.

Quest’anno, però, non andremo a trovarla. Sarà lei a venire da noi per portarci la sua contagiosa allegria. Giusy è al settimo mese di gravidanza. Io non potrei essere più felice di così, tutto, adesso, sta andando per il verso giusto.

Quando il dottore ci ha informati che avremmo avuto una bambina e ci ha chiesto se avessimo già qualche idea sul nome che le avremmo dato, io e Giusy siamo scoppiati a ridere, ci siamo guardati, e abbiamo esclamato, all’unisono, una sola parola, che racchiude al suo interno un uragano di emozioni: “Marisol!”.



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