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Marocco – Rabat Salé

Da Elettra

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(“Abbiamo perso auto e conducente e la vostra auto è proprio quella incidentata, quindi ora possiamo darvi una Dacia qualcosa invece che una Pegeaut 206. Ah non c’è l’aria condizionata, forse a Rabat potete provare a cambiarla con qualcosa di meglio, ma non è garantito”).
Arriviamo a Rabat in treno, nonostante avessimo una macchina prenotata alla Hertz di Fès. Durante il viaggio di tre ore Mayram – “In Italia sono Maria” – mi parla di olio di Argan di Agadir, di quanto a Brescia siano pericolosi “negri e cinesi”. Ognuno ha un proprio straniero da temere. Suo marito parla poco italiano, lei è incinta del secondo figlio, ogni tanto soffre il caldo, parla molto e ci facciamo compagnia. Mi saluta con tre baci, il marito con una discreta stretta di mano.
Per l’esame di Geografia urbana del Mediterraneo preparai un approfondimento su Rabat-Salé su come i due insediamenti fossero distinti, ognuno con una propria medina e con le proprie specificità. Noi siamo nella medina di Salé, tre occidentali in tutto, per il resto banchi di frutta, piccole botteghe, via vai di motorini e i soliti uomini seduti al bar e bere tè e guardare nella stessa direzione. L’aria è un po’ più fresca, il vento che arriva dall’oceano e il profumo del mare si sentono distintamente fin da quando usciamo dalla stazione e diventano più forti sulla terrazza del riad. Tajine per cena, sui divani al fresco solo per noi mentre comincio a rifiatare dopo tre giorni. Un muezzin inizia il suo richiamo, dopo un paio di minuti gli fa eco un altro. Tolgo i sandali e stendo le gambe sui cuscini. Nessun programma da rispettare, nessuna tabella di marcia da inseguire: quando arriva l’odore del mare si deve stare solo fermi a sentire la brezza sulla pelle.
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La mattina, con calma, usciamo dalla medina per andare a salutare l’oceano e ci accodiamo ad una processione sparpagliata e lenta di donne velate che tengono per mano bambini in costume e ombrelloni sulle spalle. A sinistra di nuovo tombe, migliaia di tombe, sparpagliate e piene di erba, a destra terra brulla e spazzatura, in mezzo noi e la processione che aumenta. Poi il vociare tipico di tutte le spiagge del mondo.
Subito dopo, l’Oceano.
La quantità di persone è impressionante: donne vestite che camminano più in là della riva, oppure sedute sulla sabbia con i cappelli con la visiera sopra ai veli, bambini che giocano come tutti i bambini del mondo, che corrono verso il venditore ambulante di gelato dopo essere corsi dai genitori a chiedere i soldi, come tutti i bambini del mondo. Più avanti solo la Kasbah di Rabat e la folla è così grande da far sembrare le persone piccoli puntini colorati che entrano ed escono dal mare.
Alla nostra destra le banche dei pescatori rientrano al molo: servono quattro persone per trasportare i pesci spada giganteschi, subito dopo fatti a pezzi, gli scarti buttati a terra, la parte buona subito messa ad arrostire. Ci incamminiamo lungo una spiaggia sporca e vuota, il vento è fortissimo e il mare si infrange in tanti piccoli frammenti bianchi sulle rocce mentre una barca minuscola è letteralmente in balia delle onde.
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Il pomeriggio camminiamo senza meta a Rabat: l’essere capitale la rende una città molto meno ferma al ruolo di “presepe” e basta. La gente va a lavoro, le ragazze scoperte fumano e in alcuni casi sono più svestite di me. Sul tram è bello osservare le interazioni fra le persone: due ragazzi si tengono per mano e si prendono in giro e fanno più smorfie di tutte le smorfie stupide che facciamo noi.
La medina di Rabat è molto di più un mercato per marocchini che una scenografia per turisti, al contrario della Kasbah degli Oudaïa, di cui Benedetto Croce avrebbe detto le stesse cose di Napoli: un paradiso abitato da diavoli tra guide improvvisate, che scansiamo, donne che letteralmente mi bloccano la mano per farmi uno sgraziato tatuaggio all’henné come quelli che ai tempi di Madonna in Frozen mi facevo con la penna sulla mano sinistra.
Resta il blu e il bianco delle pareti delle case, contro il caldo e contro le zanzare, i vicoli stretti e fioriti nonostante il caldo rovente e il giardino andaluso fresco dove mamme urlanti lavano via la sabbia dei loro bambini con le pompe per irrigare i prati. Li lasciano nudi ad asciugare, bambini e bambine indistintamente, le stesse bambine che come le loro madri si veleranno. C’è qualcosa che non riesco a capire, nonostante studi interculturali e cazzate di genere.
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Il vero spettacolo però è quello che non c’è scritto sulle guide che neanche abbiamo: la strada in discesa all’uscita della Kasbah che conduce al mare anche qui attraverso il cimitero. E’ un’invasione di persone, donne grosse completamente vestite di nero che risalgono dalla spiaggia accanto a mariti in pantaloncini e dietro a ragazzini che ci notano e fanno i fenomeni tra salti, spintoni e corse. Come ovunque nel mondo. Musica, venditori ambulanti e una spiaggia anche qui devastata. Ombrelloni, piccole capanne fatte con i teli. Potrebbero essere le dune di Ostia, potrebbero essere gli anni ’60, potrebbe esserci Pasolini a raccontarlo.


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