Chi cattura i mafiosi latitanti
Di Claudio Fava
Ventotto pericolosi latitanti mafiosi arrestati sull’elenco dei trenta criminali più ricercati è un bel successo: si tratta solo di capire a chi vada attribuito.
Il governo vi ha subito piazzato cappello e manifesti, utilizzando l’ultimo arresto, quello del boss Antonio Iovine, per chiedere clemenza nei confronti di Berlusconi e della sua maggioranza.
Maroni ha parlato di antimafia dei fatti (contrapposta, ci mancherebbe, all’antimafia delle anime belle e dei saviani).
Il cavaliere ci ha fatto sopra un pezzo da cabaret, come se Iovine fossero andati a prenderlo per i tetti di Casale lui e l’amico Dell’Utri. Insomma, un po’ di fanfara che di questi tempi non guasta.
Pochi, pochissimi, si sono rammentati che non sono i ministri a dare la caccia ai latitanti ma le forze di polizia. Che l’attività d’indagine è il frutto dell’azione del PM (a patto che sia un pubblico ministero indipendente, dotato di poteri di coordinamento dell’azione della polizia giudiziaria: ovvero le due cose che la riforma Alfano vuole cancellare).Che quelli come Iovine li arresti, dopo quattordici anni di latitanza, perché le intercettazioni telefoniche e ambientali a carico dei loro amici non sono state compresse nello spazio di poche settimane come vuole il progetto di legge del governo Berlusconi.
Insomma, se avessero dovuto parlare la lingua della verità, Maroni e Alfano avrebbero dovuto spiegare che Iovine e gli altri superlatitanti sono stati arrestati nonostante loro, nonostante le leggine del governo Berlusconi, nonostante le protezioni che ai Casalesi sono state garantite in questi anni direttamente da onorevoli colleghi del loro partito, nonostante il voto della Camera che ha impedito fino ad oggi di arrestare e processare il coordinatore del PDL in Campania Nicola Cosentino.
L’elenco potrebbe continuare: ma qui ci preme rimediare ad alcuni grossolani furti di memoria che il ministro Maroni ha tentato di mettere a segno nella sua polemica contro l’antimafia delle parole. Li riepiloghiamo in due parole: Fondi e Milano.
Fondi: Due anni fa il prefetto di Latina Bruno Frattasi chiese al ministro dell’Interno lo scioglimento del comune di Fondi, platealmente inquinato da interessi e pratiche mafiose. La sua richiesta era confortata da centinaia di pagine e di documenti forniti dai Carabinieri e dall’evidenza di numerose inchieste penali. Fino ad allora le richieste di scioglimento, per l’urgenza e la gravità che rappresentano, erano state esaminate (e quasi sempre accolte) dai governi in carica nei giro di pochi giorni.
Per più d’un anno il consiglio dei ministri si rifiutò di mettere all’ordine del giorno la richiesta su Fondi, consentendo la sopravvivenza della più inquinata amministrazione d’Italia. Un’omertà istituzionale che aveva una precisa ragione politica: Fondi era il feudo di un ras del PDL, e dunque andava preservato da atti istituzionali traumatici.
Alla fine, di fronte all’evidenza dello scandalo, la giunta e i consiglieri di maggioranza si dimisero: evitarono scioglimento e commissariamento, ottennero di tornare al voto tre mesi dopo e rivinsero le elezioni con la stessa squadra di malgoverno precedente. Il ministro Maroni, quello dell’antimafia dei fatti, dopo aver taciuto per oltre un anno, aprì bocca solo a misfatto consumato per ordinare che il prefetto di Latina venisse trasferito a lucidar ottoni al Viminale.
Milano. Altro prefetto, altra pasta. Diceva Gianvalerio Lombardi, ascoltato in commissione antimafia poco meno di un anno fa, che Milano è città solare, trasparente, senza rischi di alterazioni mafiose del suo tessuto sociale ed economico.
Una menzogna clamorosa, smentita poche settimane dopo dalla più gigantesca operazione di polizia in Lombardia: centinaia di arresti, una colonna della ‘ndrangheta che aveva già arruolato funzionari, amministratori, dirigenti.
Un prefetto della repubblica che ammannisce parole di conforto e di convenienza mentre il suo territorio viene spolpato dalla più agguerrita organizzazione criminale d’Europa o è in malafede o non è all’altezza.
Toccava al suo capo, Maroni, offrirci la risposta. Il ministro si è limitato a dire che il prefetto di Milano non si tocca. Punto.
Difesa a oltranza, anche quando dal prefetto Lombardi è arrivata una risposta piccata al presidente dell’Antimafia Pisanu che aveva chiesto a tutte le prefetture di conoscere i nomi dei candidati e degli eletti non in regola con il codice di autoregolamentazione approvato da tutti i partiti tre anni fa.
Non è compito nostro, fece sapere il prefetto: e i nomi non li ha mai dati. Maroni, anche stavolta, ha taciuto. E pazienza se tra gli eletti ci sono stati anche alcuni camorristi e mafiosi già condannati. Ma sì, signor ministro, chiamiamola pure antimafia dei silenzi.