Del paese d'origine del mio trisavolo ho sentito parlare molte volte durante l'infanzia, e anche dopo. Appena diciottenne, il mio avo era partito col fratello sedicenne percorrendo in carretto la strada che dal Sannio profondo puntava verso il mare. In un baule c'erano ancora le pistole corrose dalla ruggine che si erano portati per difendersi dai malviventi. Per un certo periodo avevano conservato rapporti affettuosi con la famiglia d'origine, ma non erano più tornati indietro. E dopo la loro morte e la guerra, il legame si era interrotto. Mio nonno aveva detto più volte che sarebbe voluto andare sul posto e cercare eventuali familiari ancora vivi, ma non ci era riuscito.
Più passava il tempo, più il paese assumeva la sfumatura fantastica della Macondo di Marquez. E nessuno sembrava sapere dove fosse esattamente.
Una bella mattina d'estate mio padre smese di bere il caffè a metà tazzina e guardò mia zia Margherita.
"Per la miseria. So' iute a' Mereca, n'a Finlandia, me ce manghe sule 'a Cina e 'u Giappone. Ma ti pare possibile che non ho mai visto il paese di mio nonno? Sta pure sulla statale dove è il nostro. Mò mi organizzo."
Si organizzò con mia madre, mio cugino Antonio e lo zio Michelino, e si scoprì così che il paese c'era.
C'era pure la famiglia. Con un cognome diverso, perché l'unica a sposarsi era stata una sorella del trisnonno. Ma c'era. Telefonarono. Rispose Raffaellina. Nome di famiglia. E quando capì con chi stava parlando, per l'emozione le sparì la voce.
Non era la sola a essere emozionata.
Mi sono emozionata anche io quando sono andata al paese, qualche tempo dopo, a conoscere i parenti ritrovati. L'abitato così simile a quello del mio borgo, ma sovrastato dalla figura massiccia della montagna, che copriva tutto lo sguardo quando si usciva da quella porta che il mio trisavolo aveva varcato per non tornare. E il tremito a constatare le burle delle leggi genetiche, con Raffaellina identica nella figura a zia Margherita, ma con gli occhi e i tratti di zia Maria. E ben più di un tremito nel trovarsi di fronte gli stessi occhi celesti e gli stessi corposi, lunghissimi capelli biondi della sorella di mio nonno, morta a vent'anni prima della Grande Guerra e vista solo in fotografia, in una florida ragazzina novenne dallo sguardo serio.
A quella visita è collegato anche un ricordo gastronomico. Il migliaccio, per l'appunto. Preparato meravigliosamente dalla moglie del capofamiglia, Vittoria. La ricetta è sua, e l'ho seguita fedelmente. Il suo aveva una meravigliosa superficie bruna e compatta, e odorava di primavera. Il mio è venuto crepato come un campo riarso dalla più feroce calura estiva, ma la bontà era quasi pari a quella del capolavoro dolciario della zia. Nel caso vogliate festeggiare l'ultimo giorno di Carnevale all'insegna della tradizione sannita, ecco come approntarlo.
Ingredienti:
125 grammi di semolino
500 grammi di ricotta di mucca
tre quarti di litro di latte intero
250 grammi di zucchero
1 bustina di vaniglia
3 uova
un cucchiaio di liquore Strega
Preparazione:
in primis scaldate a fuoco lento il latte addizionato con un pizzico di sale. Prima che inizi a bollire versateci a pioggia il semolino (onde evitare i grumi io mi sono aiutata con un colino) e mescolate continuamente con la fedele cucchiara di legno per evitare che si attacchi. In capo a breve vi accorgerete che il semolino si è bevuto tutto il latte, diventanto bello cremoso e giungendo a cottura: spegnete il fuoco, mettete da parte e lasciate raffreddare.
Fatto ciò è arrivato il momento di darsi del tu con la cottura: preriscaldate il forno a 160°, imburrate per bene una teglia rotonda che abbia un diametro di 24 centimetri (se avete la fortuna sfacciata di avere quella da pastiera impiegatela allo scopo) e versateci l’impasto, facendo attenzione perché risulterà alquanto liquido. Quindi lasciate andare la cottura per un'oretta almeno.
Fate quindi raffreddare il dolce in santa pace a temperatura ambiente per almeno un'ora: non fatevi prendere dalla tentazione di sformarlo prima, pena lo sbragamento dello stesso.
Io ho atteso religiosamente il tempo prescritto, l'ho rovesciato su apposito piatto e prima di ribaltarlo onde presentarlo a faccia in su ho avuto modo di constatare che il fondo era ben cotto, compatto e la colorazione giallo-dorata lo faceva sembra un disco solare. Essendosi crepata sì malamente la superficie ho ben pensato di servirlo così. Ho comunque ragione di credere che delle mie considerazioni estetiche non importasse un bel nulla a nessuno: il migliaccio è stato grandemente apprezzato da amato bene, genitori, zia e, come potete vedere, anche dalla gatta Gelsomina.
Però, per quello che vale, rivolgo un augurio a tutte le donne, me inclusa. Ricordatevi che siete importanti 365 giorni l'anno, e 366 nei bisestili.
Meritiamo molto di più. E le mimose le portassero al cimitero.