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Massimiliano Bossini, Forcipe

Creato il 15 settembre 2011 da Fabry2010
Massimiliano Bossini, Forcipe

ho visto

ondata

di stelle chieder

data

inghiottirmi

di trapasso

*

*

*

aspettando quel prodigio

che sa risorgere in brace

dall'infermo gorgo meccanico

distinguendo all'istante

metallo e plastica

da carne e ossa,

rabbiosi pensiamo a cose come fiori

o banconote a mazzi

e ripiegati dentro alle macchine

sfioriamo ciò che era la piccola breccia

che portavamo sul cranio

da fanciulli

*

*

*

indossato il mio nome

ogni lingua vi si ripiegava

dietro come carta

nel pronunciare casa

mentre trascinavo

la scia

del mio nome

via -

*

*

*

nel silenzio oh solitudine

tradisci il fonema del distacco

delle pareti dell'utero

- un gocciare

costante sulla testa, tortura

pozzo

polla

fontanile

risciacquo di sangue

gli stracci che ho dentro

*

*

*

cosa sperava di trovare

la guardia di confine

tra le mie natiche

e sotto i miei testicoli?

Forse la spezia

forse una calda chiave

di cromo

forse un amore raro

io credo qualcosa di proibito

*

*

*

dunque ogni vincolo

non è che una futura cicatrice

la sede d'un nodo

simbolo

di connessione recisa

dipendenza svanita -

un prossimo annodamento

di cibo e di vasi sanguigni

*

*

*

bada mamma

che se non sarà mai pace

io mi sfilerò le vene dalle narici

per allacciarmici le scarpe -

legarci le caviglie alle radici dei faggi

e ascoltare ascoltare per niente

filacce di linfa spezzarsi

e colare dal mento

viaggio da fermo

un luogo di terra

una forma di carne

trapassare

la stagione

che viene

*

*

*

accade

che la mia casa

vaghi brucando

che rumini artisti acerbi

dal cuore verde

*

*

*

mio maledetto alterego

andrai patendo sospeso

oscillandomi accanto

guaendo e implorando

tra le ombre delle ombre -

io ti soffio sui fiori

e ti slego per andare

e mi bevo a larghe mani

*

*

*

mi è toccata una sedia

a rotelle quadrate

in un quadrato di abisso

che stringe

addosso e scotta

l'averti sognata

così rotonda e morbida

pronta

matura perfino nel nocciolo

*

*

*

*

*

Note su Forcipe di Massimiliano Bossini.

di Renata Morresi

Potente è stata l'esplosione delle poetiche del corpo negli ultimi anni. Forte di una riflessione critica e teorica che ha attraversato il pensiero (soprattutto quello delle donne) dagli anni Cinquanta ad oggi, l'attenzione agli usi del corpo, alla sua disciplinizzazione, alle sue 'riscritture' dei codici normalizzanti, alla sua performatività, alle sue ossessioni, liberatorie e urticanti, distruttive e purificatrici, ha informato profondamente (a volte in modi luminosi, a volte con cadute manieristiche) e la poesia e la sua interpretazione.

È la scrittura delle donne ad essere tradizionalmente epicentro delle poetiche del corpo, con tutte le esaltazioni e i rischi del caso. Da una parte il riscatto del corpo femminile dal regime di pericolosità e peccato in cui è stato a lungo mantenuto (una liberazione innanzitutto epistemologica: non solo si è resa ammissibile un'altra conoscenza del mondo, una in più, ma questa ha ridefinito inevitabilmente i campi del conoscibile e del conosciuto). Dall'altra, a seguito dell'imponente riflessione su non secondarie faccende da millenni inesplorate (menarca, orgasmo femminile, parto, ecc.), il pericolo della perenne inscrizione nel mero ambito biologico. Non starò qui a riassumere un dibattito a tutt'oggi tanto complesso e vitale. La premessa vale solo per annunciare la sorpresa a veder scompaginare questo mosaico di riflessioni intorno alle poetiche del corpo dal libro d'esordio di Massimiliano Bossini, Forcipe (Il Filo, 2008).

Ricevuto un anno fa per le disparate e fortunate casualità della rete, Forcipe non ha ancora smesso di invitarmi a pensare, per via dell'afflato avventuroso, del nitido sperimentare e della risolta eleganza che lo animano. È indagante e sensibilissima questa esplorazione del soggetto poetico e al tempo stesso composta e decantata, tanto articolati il movimento desiderante, la distanza diffidente con l'altro da sé e la proiezione verso questi, quanto oscuri e vibranti i suoi motivi (probabilmente - intuisco, presumo - anche biografici). Vorrei leggere più libri di poesia fatti così: aperti a molti sensi eppure trasparenti a sé, trasfusi delle ipotesi immaginative più varie e insieme calibrati da una sorta di rettitudine interna (la fedeltà a una voce che si è strenuamente ricercata). Due sono le nozioni che Bossini rinnova: che le poetiche del corpo siano frequentate solo da autrici, che il rapporto col materno sia, per i maschi, risolto (ovvero rimosso) nell'evoluzione dall'edipico al fallogocentrico. (Altri con lui, ne sono ben conscia; penso a due esempi luminosi come Vito Bonito e Gian Maria Annovi).

Ecco dunque che "l'aspetto fusionale, lo sbiadire dei confini del sé" ( Corporea, 12), tipico della écriture feminine, costituisce un elemento fondante di questo linguaggio poetico, non solo per il senso di diffusione, di tremante contatto e possibilità fusionale ("dalla tua acqua ho preso / quel senso di sete / quella intuizione di sale [...] che riberrei il mio stesso inizio"), per l'esplorazione di spazi angusti, filtranti, liminali ("cumuli / cumuli / di passaggi / e slogature del senno"), ma anche per l'agognata e respinta identificazione con l'amato/odiato ( naturellement) fantasma materno.

Consideriamo, ad esempio, la primissima pagina, la copertina: accanto al titolo un disegno, uno schizzo ad evocare le due leve tenute da un perno dell'attrezzo in questione. Il "forcipe", notoriamente, è lo strumento usato in caso di complicazioni durante il parto, adottato in ostetricia per diversi secoli e poi soppiantato da metodi a minor rischio di effetti collaterali. Come ben scrive in prefazione Marina Paola Sambusseti, "mezzo di salvezza per molti bambini" e "simbolo di complicazione, dolore, finanche terrore per i danni che esso, accidentalmente, può provocare". Ma l'illustrazione (che, sottolineo, è opera dell'autore) potrebbe essere tanto il forcipe in questione che altro: l'abbozzo di due gambe semi-unite forse, con il monte di Venere in basso a congiungerle. Non si tratta solo di far nascere ma anche di farsi nascere da sé. Di sbloccare e di incubare. Nulla di nuovo nella storia letteraria che il corpo di donna faccia da tramite alle illuminazioni del poeta, che il corpo della madre sia desiderato e respinto. Un poco nuova invece, mi pare, sia l'adozione di un continuum poroso tra sé-corpo-corpi-mondi che tanto ricorda certe scritture femminili (penso alla cifra organica di Elisa Biagini, alle reiterazioni liquide di Laura Pugno), riconoscendovi una fonte di trasformazione e di resistenza. Resistenza a cosa?

In Nonostante Platone Adriana Cavarero ci ricorda che forse proprio la mancanza di attenzione al fatto inevitabile che si nasca da un corpo di donna ha compromesso la metafisica occidentale in una costante preoccupazione della morte, piuttosto che della vita. Non suppongo Bossini incline a riflessioni metafisiche, resta il fatto che queste poesie, così focalizzate sulla materialità della nascita, in effetti risultano irresistibilmente attratte, fin nella sintassi, verso il rinascere, il trasmutarsi. Penso alla partonogenesi che l'autore costantemente invoca e che nel primo testo s'invera nel linguaggio stesso: dalla "ondata" viene la "data", che è data di nascita, ma anche ciò che viene dato, donato, una nuova vita attraverso l'autofecondazione di sé. Ecco dunque il nucleo della resistenza. Queste poesie resistono alla morte, o meglio alla mortificazione del corpo, al suo appiattimento, alle pratiche che lo disciplinano all'interno dei tempi obbligati de lavoro e del piacere, negli spazi ossessivi della fabbrica ("ripiegati dentro alle macchine"), nelle coercizioni a godere delle droghe, nell'obbligo alla produzione e alla ri-produzione normate.

Certo, è complicato. Tutto è pertugio, fessura, passaggio qui. La techné accorre in aiuto, in primis sotto forma dello strumento poesia. Tuttavia la sua universale autorità, la sua forza meccanica diventano pericolose qualità distorsive: ricordiamo che "forcipe" viene dal latino forceps, ossia "arnese per pigliare oggetti caldi" (la radice for- rimanda al calore, alla cosa che brucia). Un arnese freddo per maneggiare qualcosa di rovente, morbido, palpitante, insomma.

Concludo, per ora, echeggiando Lacan: il corpo qui è un linguaggio. Non mera proiezione dell'interiorità, non esterno rispecchiante un interno, ma esso stesso unica manifestazione del soggetto, come il linguaggio lo è del pensiero. Come la parte emersa d'un grande cetaceo sempre interamente mobile esso "mima proprio quel movimento essenziale che lo psicanalista francese ha indicato come 'vacillamento radicale del Soggetto' di fronte alla domanda sulla propria realtà". (Annovi, 70).

°

Testi citati:

Gian Maria Annovi, Altri Corpi. Poesia e corporalità negli anni Sessanta, Gedit, Bologna, 2008.

Corporea. Il corpo nella poesia femminile contemporanea di lingua inglese, a cura di Loredana Magazzeni, Fiorenza Mormile, Brenda Porster, Anna Maria Robustelli, Le Voci della Luna, 2009.

*

[L'immagine è un particolare della copertina]


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