Magazine Poesie

Massimiliano Damaggio su un libro di Christian Tito

Da Narcyso
2 aprile 2014

Dell’essere Christian Tito
Una lettura del libro “Dell’essere umani” di Christian Tito

di Massimiliano Damaggio

christian-tito
Io vorrei consigliare a Christian Tito una cosa molto semplice: emigrare in Brasile. Cosa detta, e consigliata, non per provocazione ma per constatazione. Ma perché? Ci torno dopo. Andiamo per gradi.

Avevo letto il suo secondo libro “Tutti questi ossicini nel piatto”. Il mio parere, da semplice lettore, è: sono e sono stati pochi gli italiani in grado di scrivere un libro così leggero e delicato, ma pregnante e fondato su alcuni pilastri molto snobbati (o poco considerati?) dalla poesia italiana: ironia, sarcasmo, sorriso e leggerezza. E semplicità. Non è mica da tutti. È da pochi fare il poeta senza “fare il poeta”. Ci riescono solo i poeti veri e propri. Mi ha ricordato moltissimo Manuel Bandeira (Brasile) e Jorge Barbosa (Capo Verde), due notevoli poeti dell’arcipelago lusofono.

Detto questo, e letti gli ossicini, ho ordinato quello prima: “Dell’essere umani”, per vedere se Tito fosse già così all’esordio. Di questo libro mi interessa parlare, più che del secondo che, a parere mio di lettore, è splendido. Così, mi sono avvicinato al secondo libro con un po’ di diffidenza. Sapete: scritto in età più giovane, quindi meno maturo, meno consapevole, eccetera. Tutto quello che temevo di trovare l’ho trovato. È stata una benedizione. Ma certo, meno consapevole, più istintivo, meno calibrato, meno dedito alla pulizia dei testi, ma proprio per tutto questo definitivamente genuino.

Vorrei cominciare dall’immagine della copertina che da sola riassume tutto il libro. Vedendola, di primo acchito, non so perché, m’è venuto in mente San Francesco. In qualche modo, come poi ho avuto modo di vedere, c’entra. “Dell’essere umani” è un libro che ricerca la purezza: attraverso la ricostruzione di un’identità nelle cose che tutti abbiamo a portata di mano. Tito ne fa dei piccoli mattoni, umili, e tenta una poesia che abbia un respiro non tanto “poetico” ma, se possibile, umano. Ha un respiro comune perché: è poesia e basta, non filosofia, e non ha paura di rasentare il banale. Rasenta e non tocca. Ma poi, che cosa è il “banale”? Perché ho detto a Tito di andarsene in Brasile? Perché la sua è una modalità di scrittura e “pensamento” della poesia in antitesi con quella italiana, ma in linea con quella sudamericana che, perdonatemi, ben altri poeti ha dato al mondo negli ultimi cinquant’anni. Spesso, spessissimo in Italia si fa poesia anteponendo alla capacità di corretta comunicazione attraverso un “innovativo o originale o personale” utilizzo della lingua, si fa poesia, dicevo, quando “si fa qualcosa di poetico”. Importa, molte volte, l’argomento o il suo opposto, entrambi espressi in fumosi enunciati. Christian Tito non so se è spontaneo per natura, se è ironico per una questione di geni, ma di certo questa è la strada che ha scelto. E nella sua scelta, è perfetto. Ho letto quello che ha scritto Aglieco riguardo l’ “innocenza” di Tito. Che l’abbia davvero, cosa che io penso, o che riesca a costruirla in poesia, è comunque un bene inestimabile. Da non sottovalutare, da non mettere in secondo piano, se poi l’autore la trasporta nella sua poesia. Jorge Barbosa scrive:

Io vorrei essere semplice naturalmente
senza il proposito di essere semplice.
Saprei così soffrire con più calma
e ridere con più grazia.

A me pare che Tito si muova, naturalmente, su questi binari. Della prima parte del libro, dove dichiara di “cercarsi”, e il cui titolo è “Chi sono Io?” mi hanno ferito profondamente queste parole:

Io
che sono mio
mi sono perso su un concetto astratto
che non è più mio
che sono io…

per il semplice fatto che non sono mascherate dietro un linguaggio filosofico o una ricerca linguistica. Sono la verità semplice, e come tale espressa. Non c’è un “che” di poetico, non c’è la ricerca linguistica. C’è solo una leggerezza che comunica una verità in modo diretto. C’è questa bellezza di una poesia quasi popolare e parlata, di cui s’è molto bisogno, dove il gioco di parole, che diverte, non è comunque fine a se stesso. Scrivendo questa poesia spogliata di tutto e risonante come un albero al vento, Tito raggiunge livelli emozionali e di pienezza con sempre più parole e immagini essenziali:

oggi è un grande giorno
scrivo una poesia

che, per come la vedo io, contiene più vento e sostanza di tanta meta-poetica. Però mai si dimentica la piccola provocazione del sorriso che permette alle parole di comunicarsi con noi come la necessità di un’ostia, e ribadire quale è il nostro (ironico) posto nei confronti dell’universo:

e per essere
nell’epoca in cui sono
bisogna andare a scuola dai salmoni.

La seconda sezione del libro, intitolata “La rabbia” mi ha sorpreso, perché di rabbia non ne ho vista. Ho visto una preghiera. Allora mi sono detto: o lo fa apposta oppure non riesce a vedere le cose diversamente. Mi sono convinto della seconda ipotesi andando a cercare su Internet altre notizie su questo Christian Tito. Ho scoperto che ha diretto e girato uno splendido documentario sull’Ilva di Taranto che, non vi dico come, sono riuscito poi a vedere per intero. La conclusione è stata: la rabbia, certo, è componente della nostra vita come della sua, ma non per niente io avevo visto qualcosa di trascendente nel dipinto della copertina. Così, Tito invece di bestemmiare prega, e la sua rabbia diventa una “pietra all’incontrario” che invece di essere lanciata in veste d’odio cade a terra per edificare una piccola chiesa comune del perdono. Perché, come scrive:

non si può uccidere chi
dal suo primo giorno
colloquia con la morte
per farsi spiegare la vita.

Evidentemente la rabbia di Tito non può trasformarsi che in preghiera, non in perdono, ma per lo meno nella comprensione che per superarla indenni bisogna averci a che fare in modo “inverso”. E ritorno ancora sull’aspetto “francescano” di questa scrittura, della leggerezza che tutto può far vedere incanto. La terza sezione del libro porta il titolo di “Io credo”. E la quarta, e ultima, “Canti d’amore”. A dire il vero me lo aspettavo, avendo capito il tipo. Ma sono stato contento che la cosa andasse avanti seguendo un discorso logico e così candidamente dichiarato da parte dell’autore. Tutta questa innocenza non è una finzione, mi sono detto, perché non insegue la letteratura. Segue binari differenti, che purtroppo apprezzano in pochi, e che io ritrovo, ripeto, nella grande poesia brasiliana del novecento, dove il poeta è un uomo (soprattutto un uomo, un essere etico) che parla ad altri uomini in un atto d’amore esplicito e naturale, immerso nella vita di tutti e da cui non vuole, solo per il banale fatto di scrivere parole in colonna, allontanarsi. Per cui non riesco a stare tranquillo sulla sedia quando leggo:

È festa oggi
ti rivedo dopo cinque stagioni
sei bello amico mio
aspetta
ti lecco le ferite

Oppure:

se fossi amore
sceglierei sempre le porte strette
potrei guardare chiunque negli occhi.

E infine:

C’è tanta gente che ha voglia di rendere questo mondo migliore, ognuno con un fiore con inciso il proprio nome. (…) Io, dal canto mio, sento che sul mio fiore ho ancora molto, moltissimo da lavorare, ma giuro che giorno dopo giorno proverò a incidere qualche lettera in più del mio nome.

Quindi torno a consigliare Tito di emigrare in Brasile. Il suo paese in poesia è quello, là dove le sue caratteristiche sono considerate componente fondamentale dello scrivere poesia, che non è solamente linguistica e filosofia ma sentimento di condivisione di un mondo popolato di milioni di altri uomini, non dimentichiamolo, con cui si condivide lo stesso banale destino di uomini. Lasciate quindi che dedichi a Tito questa poesia del suo (a sua insaputa) maestro Manuel Bandeira:

La rondinella là fuori sta dicendo:
- Ho trascorso il mio giorno invano!

Rondinella, rondinella, il canto è più triste!
Ho trascorso la mia vita invano!


Potrebbero interessarti anche :

Ritornare alla prima pagina di Logo Paperblog

Possono interessarti anche questi articoli :