Il romanzo di Massimo Vaggi ci porta indietro nel tempo, una ventina d’anni fa o poco più. Un tempo adolescente, quasi sfumato, vago e sereno per noi, per i lettori della mia generazione che sono nati nella seconda metà degli anni settanta. Essere adolescenti nel 1992, nei Balcani sconvolti dalle Guerre iugoslave, nella Sarajevo asfissiata dalle milizie serbe e dai paramilitari in cerca di croati e musulmani da stanare, invece è difficile da raccontare e perfino da immaginare. Era il primo conflitto scoppiato in Europa dopo la Seconda Guerra Mondiale che – ci avevano insegnato nella scuola delle buone intenzioni – sarebbe stata l’ultima guerra o doveva essere l’ultima, la fine della storia. Invece un altro olocausto, la pulizia etnica e l’orrore stavano squarciando il cuore dell’Europa, proprio oltre l’Adriatico, dove molti adesso vanno in vacanza perché in Slovenia e in Croazia “è più economico”. E la memoria svanisce, ma non tra le pagine di un romanzo.
L’autore racconta Sarajevo partendo dalla vita quotidiana, dai primi giorni di assedio in cui si respira la tensione a fior di pelle, ma le persone sembrano ignorarla, sembra quasi che il timore della guerra incombente possa sfumare. Vaggi narra la storia di Milo, studente di liceo sedicenne e promessa del calcio locale, che è innamorato di Lana. Un amore che fugge via e si salva dalla realtà. Milo vive con la madre Jasna e il padre Hasan. Tra l’aprile e il giugno del 1992 la sua famiglia, come migliaia di altre, si trova a far fronte all’arrivo delle truppe serbe e dei paramilitari a Sarajevo, capitale bosniaca in cui le diverse etnie e le differenze erano riuscite a trovare un equilibrio accettabile fino a pochi mesi prima. Non ci sono i buoni e i cattivi in questa guerra, ma solo fazioni in lotta che martoriano una città, pur senza riuscire del tutto a toglierle la speranza e l’energia che da sempre possiede.
Questo “racconto dalla città assediata”, che è anche un diario delle prime settimane di un’oppressione militare su cui pare sia calata una cappa di smemoratezza generale e complice, risveglia i ricordi e le sensazioni catodiche di chi assisteva da lontano al genocidio e all’impotenza dell’occidente. L’inerzia relativa dell’Europa sconvolta “in casa sua”, ma distante e assente, e quella dell’ONU con i suoi caschi blu fermi lì in missione ad aspettare la pace, non sempre a promuoverla. E la pace ci metterà oltre 43 mesi ad arrivare, 3 anni e mezzo in cui gli adolescenti bombardati e mitragliati di Sarajevo imparavano a diventare adulti giocando tra le granate, perdendo amici, parenti, ricordi e pezzi d’umanità. Ma la loro quotidianità, ferocemente mutata, sceglie di andare avanti sempre e comunque, pervicace, in mezzo agli attacchi e alle angherie dell’assedio che soffocò decenni di convivenza pacifica tra popoli diversi e, fino a poco tempo prima, complementari.
Lo stesso autore ne parla in questi termini in un’intervista a Giuseppe Ciarallo (link intervista intera): “Da qualche anno era in corso nei territori della ex Jugoslavia una sorta di guerra ‘tutti contro tutti’, ma che in qualche misura aveva conservato ancora le caratteristiche di conflitto tra Stati. Nel 1993 ho partecipato a una missione che non è riuscita ad andare al di là del territorio croato, nel corso della quale però ho visitato tra le altre cose alcuni campi di rifugiati bosniaci, dove ho incontrato profughi ed ex combattenti. La particolarità di quanto stava accadendo a Sarajevo mi colpiva moltissimo, sia per le caratteristiche della città, che almeno nel nostro immaginario per decenni era stata portata come esempio di civile convivenza tra popoli, etnie e religioni, sia per la difficoltà di comprendere le ragioni del conflitto, di distinguere le responsabilità, di individuare le motivazioni anche individuali dell’esplodere di tanta violenza. Con il tempo, la guerra ha assunto un aspetto mostruoso, di strage di civili assediati da parte di gruppi paramilitari, anche se all’inizio la situazione appariva molto più indefinita, e proprio questa caratteristica, dell’affermarsi nell’individuo dell’istanza etnica ultra-nazionalista oppure del senso dell’appartenenza a un territorio e a una storia collettiva, mi sembrava un nodo fondamentale da comprendere. Tra gli assediati c’erano molti serbi, che hanno scelto di restare abitanti della città, e non membri attivi del ‘popolo celeste’ in una guerra di crociata: tra questi alcuni intellettuali, giornalisti, militari, anche di grado elevato. Del che esiste un’eco nel romanzo: uno dei protagonisti, il professor Simo Zivanovic, è serbo”. Quando “l’altro” attacca, rinasce il nazionalismo: l’alterità aggressiva e irrazionale cova nelle menti e sospinge l’odio verso la follia.
Mentre Sarajevo sprofonda lentamente nel baratro, Zivanovic, che è uno storico sperimentato, scrive la storia di Jovan, contadino costretto ai lavori forati nel 1531 dalle milizie di Alibeg che cooptano manodopera per la costruzione della moschea del Bey. Jovan “si trovò in un posto sbagliato nel momento meno propizio, per cui a causa della concomitanza di tali sfortunate circostanze capitò che fosse catturato dalla milizia di Aliberg, sguinzagliata per le strade della regione alla ricerca tra contadini di braccia forti e a buon mercato, proprio mentre si trovava intento a caricare fieno su un carro destinato, ironia della sorte, alle scuderie del fiduciario, sconfinato amante dei cavalli quanto poco interessato alla qualità dell’esistenza dei cristiani”.
Questa storia parallela stenta a trovare uno sviluppo, un’evoluzione, proprio come l’assedio infinito dei nazionalismi in esplosione e la vita dei cittadini. E’ uno stallo, un dilemma irrisolvibile per il suo autore, il professore, che però ci catapulta in un’altra dimensione temporale in cui musulmani e cristiani furono i protagonisti di altre storie, perse nei secoli tra imperi e religioni, di altre dispute, sottomissioni e ribellioni. L’inevitabile conflitto potrebbe essere sventato, pensano tutti, lo sperano tutti, ma qualcosa non va, gli interessi in gioco preferiscono la forza e la violenza contro popoli che semplicemente vivono, non guerreggiano. Sono schiacciati nella loro quotidianità da una storia che non conoscono, da volontà diverse dalle loro per cui tentano una reazione come possono e come credono.
Il professore, il padre giornalista e l’allenatore della squadra di calcio, Ibrahim detto “lo zio”, sono le figure guida di Milo nel disastro dell’assedio che comincia in sordina, s’intensifica giorno dopo giorno e infine crea una nuova normalità, un’ordinarietà eccezionale e drammatica che il ragazzo, volente o nolente, deve affrontare. E lo fa grazie al calcio, al suo ruolo di portiere prodigioso e promessa in bilico, e alle chiacchierate con il serbo professor Zivanovic, assediato e incredulo anche lui come tutti gli altri abitanti. Ma la città sotto tiro non ha più scuole, non ha più campi da calcio né spazi sicuri. E Milo non ha più un padre, avendo quest’ultimo rinunciato alla famiglia per la difesa nazionale dall’attacco “esterno”.
Milo cerca di sfuggire al suo destino grazie all’aiuto di un sergente, un casco blu francese che rappresenta l’utopia della libertà, il sogno di una carriera calcistica in Italia, la fuga, ma pure l’aspetto sordido dell’intervento “umanitario” che queste “forze di pace” mantengono in molti paesi: non sempre sono i “buoni”, non sempre sono incorruttibili e neutrali pacificatori di popoli come si vorrebbe far credere.
La resistenza croata e quella bosniaca si organizzano contro l’avanzata serba e il papà di Milo cambia professione. Diventa irriconoscibile: un militare senza ricordi né esitazioni che difende, oltre alla sua città, anche la sua nuova identità partigiana da ogni attacco degli ex colleghi, della moglie e del suo passato di padre di famiglia. Adesso bisogna solo resistere. I primi attacchi, il conflitto, le prime vittime, e sono tanti i punti di vista che abbiamo per capire che cosa stava succedendo. Ciononostante non è facile, nemmeno per i protagonisti di queste pagine, in quest’improvviso campo di battaglia, comprendere i fatti confusi di quel mese di aprile 1992, quando le sparatorie e gli attentati da sporadici diventarono costanti.
Sarajevo è una città sull’orlo del baratro, anche se nessuno, forse, se ne vuole rendere conto. Lo stile del racconto comincia sornione, riflessivo, lento e descrittivo e poi prorompe, con il precipitare degli eventi e della storia verso il nulla, la vita segregata.
“Da dove sono arrivati, al riparo di un’antica acacia e protetti dalla stessa arroganza cieca dei vincitori che non sospettano nulla, Vladko e Hasan possono vedere che quella strada alla fine si apre in una larga piazza con al centro un giardino e una statua e tutto intorno gli uomini che lo pattugliano, con le pistole Scorpion e gli AK-47 in braccio. Non c’è azione, tutto sembra fermo. Osservando meglio però vedono, infine, ciò che è già successo, e si bloccano, accasciandosi come esausti per una fatica immane che è toccata ad altri, e come storditi e rallentati continuano a guardare l’orrore, nel silenzio rotto dal cinguettare di passeri e dal rumore del vento e delle foglie. È Hasan che parla per primo, e le parole escono da profondità mai conosciute. «Io non ho niente da scrivere. Questa» e indica la città «è adesso tutta roba tua. Vai.»
Con lentezza e tecnica e amore, del tutto fuori luogo viste le circostanze, Vladko smonta allora il 50 millimetri per sostituirlo con un potente teleobiettivo, e fotografa.
Fotografa la donna riversa a terra in una posizione grottesca, volto al cielo e braccia spalancate, le gonne sollevate oscenamente a rendere più vergognosa la sua morte, fotografa il cane che lecca il sangue rappreso sulla fronte del vecchio appoggiato alla parete di una casa bruciata, fotografa il bambino che urla e piange seduto sul marciapiedi davanti a due armati che ridono di lui, fotografa l’uomo che prende a calci il cadavere di una donna, che sobbalza inerte, come un giocattolo rotto.
Fotografa, e pensa di aver fotografato la fine del mondo.”
Prima di questa tempesta, prima della fine del mondo, la descrizione di Sarajevo, ossia la narrazione della vita dei suoi abitanti e dei protagonisti di questo romanzo, è lenta e conquista il lettore a poco a poco, senza fretta. I periodi sono lunghi, riflessivi, quasi sornioni. L’esplosione delle prime granate e il deflagrare del tempo, dello spazio e dell’azione condurranno presto il lettore nell’inquietudine e nell’accettazione del peggio. Rapidamente. Il peggio del mondo nel cuore del vecchio continente. Il crogiuolo di razze e tradizioni, popoli e paesi che non si sopportano più, d’un tratto, e si macchiano di crimini contro l’umanità. Vanno contro la loro stessa storia che, però, riprende ancora una volta, s’insedia nell’ombelico del loro mondo, così vicino al nostro ma trascurato: dopo lo smarrimento, la cosmopolita Sarajevo, città ferita e crivellata, prova a rinascere dalle ceneri dell’assedio oltre vent’anni dopo. Ricordando.
Massimo Vaggi è nato a Domodossola nel 1957 e vive a Bologna, dove esercita la professione di avvocato. Ha pubblicato: Un silenzio perfetto (Pendragon, 1996), Tu, musica divina (Interlinea, 1999), Delle onde e dell’aria (Mobydick, 2002), Al mare lontano (Pendragon, 2005). Suoi racconti compaiono nelle collettanee Sorci verdi. Storie di ordinario leghismo (Alegre, 2011) e Lavoro vivo (Alegre, 2012).
Recensione da Carmilla