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Masterpiece: critica ermeneutica della storia dei prosciutti rinchiusi in una riserva a forma di circo che è la TV

Creato il 18 novembre 2013 da Frankezze

Masterpiece

Dunque. Effettivamente si sentiva proprio la necessità di un talent show per aspiranti scrittori. Sicuramemte un talent, ha, in questo senso, un’utilità sociale: perché così questi aspiranti scrittori li rastrelliamo nei bar, nelle discoteche, nelle biblioteche e li rinchiudiamo in un unico contesto. Così finalmente rischiamo di non finire a flirtarci insieme, finiamo per non dovere spendere parole di finto incoraggiamento nei confronti di uno/una che ci asciuga con “ho in mente un libro che parla della mia vita, della mia storia di anoressia, della mia infanzia in provincia, della mia estate on the road”.

Io la vostra vita non la voglio sapere.

L’ignoto: i giudici (Andrea De Carlo, Taiye Selasi, Giancarlo De Cataldo)

1) Chi cazzo è Taiye (#taje)

2) Ma Andrea De Carlo, oltre ad avere condannato la mia esistenza a quella del libro Di noi tre, cos’è che fa?

3) Giancarlo De Cataldo, ma non si chiamava Massimo?

Dai, ok, si scherza…

Le riserve per gli ego

Vorrei che questi talent show/reality diventassero delle riserve per gli ego con storie da raccontare. Così se le raccontano tra di loro, e al massimo escono per venire a letto con me se sono carini. Ma quando è il momento di parlare tutto si fa buio, suona la campana e ci diciamo, proprio come nella pubblicità di D & G con Scarlett Johansson e Matthew  McConaughey  (“yes, we should go”).

Devo tornare in riserva

Sì, penso che dovresti tornare in riserva

Storie di finzione narrative

Ho letto un articolo sul Corriere della Sera, di Roberta Scorranese, in cui De Carlo esprime il proprio manifesto di giudice “voglio la vita vera nei  romanzi”. Questa frase è in assoluto vera: auspicabile. Nel particolare è molto facilmente e pericolosamente fraintendibile. In relazione al debutto di ieri di #masterpiece, io credo che stia succedendo qualcosa di orribile. Temo che si stia confondendo la parte per il tutto. Ovvero, una modalità narrativa, che può essere quella dell’autobiografia, o della storia tratta dall realtà con la narrazione, con la letteratura.

Non dimentichiamoci che la realtà offre belle storie, ma queste possono non essere nostre e noi possiamo farle nostre. Alcune possono essere inventate. Altre metà e metà. Non vorrei che con “vita vera”, che è una dicitura tanto platonica quanto riferibile a diversi ambiti, si finisse col creare ingiuste sovrapposizioni di genere – no, non è una supercazzola – ovvero: vita vera è la vita vera. La si può vivere, ma la si può leggere, guardare, osservare. Non deve essere per forza la mia vita vera: una buona storia non deve essere un genere. Insomma, cosa stiamo facendo? Al solito, forse perché questo impone il talent, stiamo semplificando. Troppo. Lo prevedeva Leopardi, nelle sue Operette morali e nello Zibaldone.  La divulgazione per la divulgazione significa semplificazione. E va bene, va bene che ci siano più livelli di conoscenza. L’importante è che non si perda mai il massimo livello. Qualcuno dirà – lo share: 690 mila, 5,1% (58 anni), laureati 13,1% – “abbiamo avvicinato un pubblico non laureato a qualcosa di culturale”. In verità no. Stiamo rendendo pop qualcosa di sacro. E inevitabilmente questo porta a delle semplificazioni, a della superficialità.

Ragione per cui mi sento di dire che mai come oggi possa valere quella piccola cosa sugli scrittori morti, di Murakami in Norwegian Wood. C’è un dialogo tra due personaggi. L’uno dice all’altro che legge solo autori morti. Perché? Perché il compiacimento estetico per la letteratura, la storia, implica una distanza. Anche platonica, anche temporale, anche vattelapesca. Ma una distanza (il che non sigifica non immedesimarsi). Per dire: a me piace come scrive Piperno, ma mi trovo così in sintonia con alcune definizioni, che vorrei proprio trovarmi a leggerlo fra 30 anni, e capire. Con le dovute eccezioni, si intende.

Il piscio, le imprecisioni, e i fratelli Sgarbi

Due cose mi hanno dato fastidio: la prima, una definizione scritta di uno dei concorrenti (che si chiamava Lilith, sì come una donna): “l’odore acido di piscio”. La pipì contiene molta ammoniaca e quindi non è acida. Dipende da cosa si è mangiato, ma l’odore di piscio non è acido. I tre giudici non possono fare passare uno che scrive che l’odore della pipì è acido. Su. “Scrivere è come fare la pipì. Da fare da soli”. Questa è la citazione che mi porterò sempre nel cuore. Anche se esistono pratiche sessuali di condivisione della pipì (quindi anche questa è un’imprecisione).

Scusate a me tutto questo parlare di piscio mi ha fatto venire a) voglia di fare la pipì, b) in mente che sì, dovremmo tutti prendere la pipì con più leggerezza. Sgarbi voleva pisciare in testa a Cruciani durante Radiobelva, e sarebbe stato un bellissimo spettacolo. Credo ci sia un fil rouge tra i fratelli Sgarbi e la pipì. E non aggiungo altro o verrò querelata. #vascadabagno #pipì #fratellini (Elisabetta è il Boss Artiglio di #masterpiece).

Il twitter stream

Io il programma non l’ho visto perché ero impegnata a twittare, e a leggere i tweet degli altri.

L’amore

Un giorno un uomo mi disse: Franka, tu mi piaci perché sei immune al romanzo. Io gli risposi: ti sbagli, sto scrivendo un romanzo che parla della mia personale storia di vita di una certa fascia sociale di ragazza che… zzzzzzzzzzzzzz

Casi umani

Quando i casi letterari si sovrappongono a quelli umani (l’operaia che scrive e ha un padre anaffettivo, l’anoressica con un’anoressia più anoressia delle altre, lo scappato di casa che si chiama Lilith e sente odore di piscio acido ovunque e tu gli vuoi dire guarda che non è mozzarella, è piscio, non è acido, quella che la sbattono fuori “ma i miei amici mi dicono che sono brava”, gli editori che per pararsi il culo avvertono “ti mandiamo via ma tu non smettere di scrivere, mai”)

Perché nessuno ha chiamato Paolini?

NE VOGLIO ANCORA

Il mio giudizio però, con le dovute critiche è: dai, andiamo avanti.

Franka Dipollina

L'articolo Masterpiece: critica ermeneutica della storia dei prosciutti rinchiusi in una riserva a forma di circo che è la TV è ovviamente opera di Frankezze.


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