Mazzarò accresce in una vita i suoi averi, tanto che il viandante che arriva nella sua campagna rimane stupito quando, alla domanda «Di chi è qui?», si sente continuamente rispondere «Di Mazzarò!»; nonostante ciò, egli continua a vivere in modo parco, senza nemmeno cambiare il suo logoro berretto (o meglio, cambiandolo, ma tornando poi al vecchio), perché tutto il suo lavoro è finalizzato ad accumulare roba. Ma Mazzarò si rende ben presto conto che dovrà morire e abbandonare tutto ciò cui ha dedicato l'esistenza, sicché, in un impeto di rabbia, esce in cortile e distrugge tutto ciò che trova al grido di «Roba mia, vientene con me!».
Gesualdo non si distacca molto dal suo archetipo, ma Verga dedica ampio spazio anche alle persone che lo circondano, dai nobili della decaduta della famiglia Trao ai familiari di Gesualdo, dai collaboratori del manovale ai possidenti con cui o contro cui egli intesse i propri affari, dall'acquisizione all'asta dei poderi comunali al matrimonio della figlia Isabella con il gelido duca di Leyra.
Devoto alla religione della roba, Gesualdo lavora strenuamente per incrementare la ricchezza della famiglia e, quando gli viene proposto di sposare Bianca Trao, che va maritata in fretta per mettere a tacere lo scandalo della relazione che ella ha col cugino, il barone Ninì Rubiera, nel corso della quale è rimasta incinta, Gesualdo accetta, nella convinzione che questo darà vantaggio ai suoi affari. Ma a Gesualdo arrivano solamente danni, dai parenti della sposa che hanno bisogno di sostentamento ai debiti del barone Rubiera, che si è fatto spennare da un'attrice, ai propri congiunti, che, dopo la morte del padre, pretendono di avere ciò che al padre Gesualdo ha procurato col proprio sacrificio. In tutto questo, Gesualdo perde ben presto anche l'affetto della figlia, che egli strappa ai sogni d'amore che nutre da giovinetta per il cugino Corrado, costringendola ad un matrimonio d'interesse: la sua devozione alla roba è ciò che lo rende bersaglio di odi e invidie di familiari, rivali e vecchi collaboratori lo porterà a morire solo, nella pomposa casa del duca di Leyra, in mezzo alla totale indifferenza della servitù.
Sebbene lo stereotipo di Mazzarò sia un inevitabile termine di paragone e dal riassunto della trama Gesualdo appaia come un arrivista cieco ad ogni sentimento, la prospettiva è nel romanzo molto più complessa. Il bisogno di Gesualdo di migliorare la propria condizione nasce essenzialmente dal bisogno di strapparsi alla miseria e, gradualmente, si muta in una forma di avidità che, però, non è del tutto egoistica: Gesualdo mette il proprio denaro a disposizione del padre, finanziando anche progetti che non condivide, pensa alla sorte della sua cara serva Diodata, è disposto a pagare le cure di Diego, fratello di Bianca, e di Bianca stessa, quando occorre tentare i rimedi più dispendiosi per salvarla e vuole garantire a Isabella la migliore istruzione e la possibilità di rivaleggiare con le ragazze nobili con i suoi abiti, i suoi oggetti, il corredo del collegio e l'istruzione che in esso riceve. Gesualdo, insomma, non è un uomo avaro, ma è convinto che il denaro sia strumento di un miglioramento (al punto che, sul letto di morte, pensa al bene sociale che lo sfarzo inutile della casa del genero potrebbe produrre), anche se chi gli sta intorno non lo comprende, perché accecato dall'opportunismo e dal bisogno di avere per sé quei beni, come accade nella gran parte degli abitanti di Aci Trezza che girano intorno ai Malavoglia. A questa vicenda personale si intrecciano i mutamenti della storia, dai moti del '21 che Gesualdo appoggia con fervore a quelli del '48, in cui, ormai stabilizzato nella sua posizione, decide di non lottare, passando per l'epidemia di colera del 1837. Il ritratto di questo Vinto, allora, si fa profondo, ricco di sfumature, tutt'altro che semplicistico.
Renato Guttuso, Contadini al lavoro (1950)
Nonostante Mastro Don Gesualdo sia un romanzo molto significativo nell'ambito della narrativa verista e dell'opera di Verga, al punto che la critica lo considera il suo capolavoro, la lettura ha prodotto in me un effetto completamente diverso da quello de I Malavoglia: in quel caso mi ero appassionata, avevo sentito una grande vicinanza alla storia dei singoli protagonisti e, nonostante qualche ostacolo creato dall'abbondanza di personaggi secondari, ho affrontato con piacere le pagine del libro. Qui, invece, mi sono scontrata con una grande pesantezza, con interi capitoli che non portano a nulla e con diverse ridondanze. Le parti dedicate alla tresca del barone Rubiera con Aglae o i sogni adolescenziali di profumo romantico di Isabella (bellissimo il momento in cui ella si rivolge alla luna, immaginando che anche Corrado la osservi e di essere così legata a lui) sono quelle più vivaci, anche se, al contempo, sono le meno veriste, cosicché l'autore non le sviluppa oltre qualche pagina.
Mastro Don Gesualdo rimane comunque una lettura che va affrontata se si vuole comprendere il percorso letterario di Giovanni Verga, che, negando o riducendo fortemente la possibilità di compartecipazione e sintonia con i suoi personaggi, produce proprio l'effetto di impersonalità che l'autore va cercando dai tempi di Rosso Malpelo.
Stava zitto, non lagnavasi, perché non era un minchione e non voleva far ridere i nemici; ma intanto gli tornavano in mente le parole di suo padre, gli stessi rancori, le stesse gelosie. Poi rifletteva che ciascuno al mondo cerca il suo interesse, e va per la sua via. Così aveva fatto lui con suo padre, così faceva sua figlia. Così dev'essere. Si metteva il cuore in pace, ma gli restava sempre una spina in cuore. Tutto ciò che aveva fatto e che faceva per la sua figliola l'allontanava appunto da lui.C.M.