Un premier, mille impegni presi col Paese. Dalle scuole, all'Irap fino all'articolo 18. Ma solo alcuni sono stati mantenuti. Radiografia dell'azione di Renzi. E delle sue troppe parole. La pagella (di Marco Damilano - l'Espresso)
Quelli di Renzi sono delle copie sbiadite, e non fanno neanche ridere: fanno cagare...
La madre di tutte le promesse è la legge di Stabilità 2015 approvata dal Consiglio dei ministri il 15 ottobre, una manovra da 30 miliardi, finanziata per 13 miliardi dalla spending rewiew e per altri 11,5 in deficit aggiuntivo, una cosa che non si è mai vista nell'ultimo quarto di secolo. La sfida all'Europa, la massima forzatura alla camicia di forza dei vincoli europei. Anticipata all'assemblea di Confindustria di Bergamo, due giorni prima: «Taglieremo 18 miliardi di imposte, 6,5 miliardi soltanto di Irap», aveva annunciato il premier. La penultima promessa era stata lanciata soltanto qualche ora prima via Facebook, a proposito dell'alluvione di Genova: «Nei prossimi mesi utilizzeremo i due miliardi che lo Stato non ha mai speso». Quella precedente, la futura abolizione dell'articolo 18, non è prevista nella legge delega sul lavoro votata al Senato, è affidata ai decreti attuativi del governo, quando arriverà il momento: basta la parola. Per Matteo Renzi l'ultima promessa è sempre superata da un'altra in arrivo. La promessa è il dna del premier, la sua quintessenza, connaturata al suo carattere e al suo stile di governo, lo strumento principe da utilizzare per spingere in avanti di fronte all'opinione pubblica le riforme, il cambiamento. Anche quando non ci sono le risorse. O quando le realizzazioni tardano ad arrivare.
La legge di Stabilità in spending rewiew ma soprattutto in deficit aggiuntivo è arrivata nelle stesse ore in cui i vertici di Banca d'Italia, in audizione parlamentare, segnalavano che il Pil segnerà «un'ulteriore flessione» nell'ultimo trimestre del 2014. E che sulla situazione economica pesa «l'incertezza sugli effetti delle riforme del governo», come dire che nonostante le ripetute assicurazioni che si fa sul serio, mercati e istituzioni sovranazionali continuano a non fidarsi ciecamente di Renzi.
Il primo obiettivo sfuggito al premier, era una previsione in realtà più che una promessa, è il numero magico del Pil, la speranza di un segno positivo per il 2014 clamorosamente mancato. «Nel Def mettiamo come crescita lo 0,8, un dato più basso della stima del governo Letta, ahimè troppo ottimistica. Ma con gli 80 euro in più in busta paga alla fine dell'anno potremo arrivare all'uno per cento e superarlo», si diceva convinto il premier il 28 marzo. Invece l'economia italiana è incollata al segno meno della recessione, ha infine ammesso ritoccando i numeri al ribasso nella correzione del Def il ministro dell'Economia Pier Carlo Padoan. Un brusco scostamento tra le promesse e le realtà, come avviene in altri capitoli del governo Renzi.
Sull'estinzione completa dei debiti della pubblica amministrazione (60 miliardi), per esempio, il premier si era solennemente esposto il 24 febbraio, presentando il governo al Senato per il voto di fiducia: «Il mio primo impegno è lo sblocco to-ta-le, ripeto, to-ta-le, non parziale, dei debiti della Pubblica amministrazione». Promessa solennemente ripetuta in tv, nel salotto di Bruno Vespa: «Entro il 21 settembre, giorno di San Matteo, paghiamo tutti. E se lo facciamo, lei poi va in pellegrinaggio a piedi da Firenze a Monte Senario». Quando il 21 settembre è finalmente arrivato, però, il ministero dell'Economia con una nota ufficiale ha fatto sapere che su 56,8 miliardi messi a disposizione ai creditori ne erano arrivati soltanto 31,3, ovvero il 55 per cento del totale. Renzi, però, non si è detto sconfitto: «Impegno mantenuto. Chi andrà sul sito del governo troverà la pratica per ricevere i denari». I soldi ci sono, ma non sono arrivati. Pirandello a Palazzo Chigi.
Un altro settore su cui il premier si è impegnato al momento di chiedere la fiducia alle Camera è il finanziamento per l'edilizia scolastica: «Dobbiamo intervenire sull'edilizia scolastica con un programma straordinario, dell'ordine di qualche miliardo di euro e non di qualche decina di milioni, partendo dalle richieste dei sindaci». Promessa ribadita il 12 marzo, a Palazzo Chigi nella conferenza stampa delle slides in cui fu annunciato per la prima volta il bonus da 80 euro in busta paga: «Il piano per le scuole è di 3,5 miliardi, dal primo aprile l'unità di missione sarà attiva a Palazzo Chigi». Sei mesi dopo, lo stesso sito del governo certifica che le risorse previste sono scese a un miliardo, per interventi in 21.230 scuole: 17mila interventi di manutenzione (#scuolebelle), 2865 di messa in sicurezza (#scuolesicure), 404 nuovi edifici (#scuolenuove). Gli interventi già effettuati per la manutenzione sono appena 918, quelli che si concluderanno entro la fine dell'anno il 35 per cento dei lavori previsti. E di scuole nuove finora ne è stata consegnata soltanto una.
All'alba del suo governo il nuovo premier aveva avvisato che non ci sarebbero stati alibi, l'Italia doveva fare le riforme essenziali «entro il primo luglio», giorno di inizio della presidenza italiana Ue. «I tempi delle riforme non possono più essere considerati una variabile indipendente», aveva detto. E giù, infatti, obiettivi e date vincolanti, rigorosamente scandite nell'aula parlamentare. Il mitico crono-programma: riforma elettorale a febbraio, lavoro a marzo, pubblica amministrazione ad aprile, fisco a maggio, giustizia a giugno. Poi, subito il voto europeo, Renzi ha cambiato la sua agenda: via il cronoprogramma, ecco il passo dopo passo, il piano dei mille giorni. In contraddizione con l'esigenza di fare presto, ma più adeguato alla situazione politica uscita dal voto europeo: il Pd al 40,8 per cento, l'opposizione populista del Movimento 5 Stelle sbaragliata, il partito berlusconiano senza leader e in picchiata nei consensi.
Ci si poteva aspettare una pausa. Invece la macchina renziana è tornata immediatamente a emettere promesse: i 150mila insegnanti da assumere (doveva essere un capitolo della riforma della scuola, finiranno nella legge di Stabilità), il Tfr in busta paga su cui sono state sondate l'opinione pubblica e la disponibilità delle imprese. Progetti che vengono consegnati all'attenzione dei media e poi ritirati, ma che intanto producono l'effetto politico e comunicativo desiderato: blindare l'immagine di un premier che non parla ma decide, che non si fa invischiare nella palude delle mediazioni romane ma continua a muoversi a velocità imprevedibile, scegliendo il terreno più congeniale.
Resta da vedere, tra le promesse di Matteo, cosa sarà della riforma della Costituzione e della nuova legge elettorale, che Renzi ha sempre giurato di considerare necessarie e urgenti. «Se non le facciamo subito siamo finiti», aveva dichiarato il 18 dicembre 2013, non ancora premier ma già eletto segretario del Pd. Tre mesi dopo, il 18 marzo, già a Palazzo Chigi aveva di poco corretto il tiro: «Dobbiamo arrivare alle elezioni europee del 25 maggio con la prima lettura della riforma costituzionale sul Senato non elettivo e l'Italicum definitivamente approvato». La riforma costituzionale è passata in prima lettura al Senato ed è ferma a Montecitorio. L'Italicum, votato dalla Camera, è in commissione al Senato, si è parlato di modifiche e emendamenti che non hanno ancora preso forma. Intanto tra i berlusconiani crescono le voci su una rottura del patto del Nazareno proprio sulla legge elettorale, per andare al voto anticipato con il sistema attualmente in vigore, il Consultellum, proporzionale e senza premio di maggioranza. Un azzardo, certo, ma dal punto di vista berlusconiano l'assenza del premio renderebbe impossibile formare un governo senza una coalizione Pd-Forza Italia, o meglio Renzi-Berlusconi. Il più attrezzato a correre il rischio però è proprio lui, Renzi. Pronto a trasferire gli annunci di governo sul campo che ha già dimostrato di conoscere alla perfezione: il mercato delle promesse. Elettorali.
Marco Damilano
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