Da centocinquanta giorni ho cambiato ruolo, vita e domicilio. Spero dunque di apparire ai miei amici delle E-News “assente giustificato”. Anche perché se in questo periodo non vi ho scritto, vi ho comunque intasato la vita con i tg, le interviste, la campagna elettorale.
Adesso torno alle E-News. Non che fossi preoccupato per la vostra tenuta psicofisica senza newsletter, sia chiaro, lo so che vivete bene anche senza: lo faccio innanzitutto per me. Perché leggere i vostri commenti (matteo@governo.it) mi è fondamentale. Magari non riesco a rispondervi, me ne scuso, ma vi leggo. E specie adesso che è meno facile muoversi in libertà, in treno o in bici, capire cosa pensano davvero le persone è fondamentale. Dunque:
- torno alle enews, anche se una volta al mese, non una volta alla settimana;
- chi vuole cancellarsi, può farlo come di consueto. Questo vale immagino soprattutto per quei fiorentini che fossero interessati alle vicende cittadine (quiil mio saluto alla città);
- se mi scrivete vi sono grato. Se non vi arrabbiate perché fatico a rispondere, lo sono ancora di più.
L’E-News è un canale di dialogo aperto. Ma questo invio rischia di essere il riassunto delle puntate precedenti, di ciò che abbiamo fatto. E forse anche un sommario di ciò che stiamo facendo. Ecco perché cerco di non girare troppo intorno e vado al sodo.
Noi pensiamo che l’Italia sia nelle condizioni di guidare l’Europa. Che la qualità di vita e di valori di questo Paese possa essere assicurata anche per il futuro. Che il mondo globalizzato ci dia più occasioni che problemi.
è una lettura, sia chiaro. Una visione discutibile, se volete. Ma è il nostro orizzonte. Noi siamo qui. Non ci troverete mai nell’elenco dei rassegnati per professione, dei disprezzatori di noi stessi, dei pessimisti per vocazione. L’Italia che noi stiamo guidando è un’Italia che ha tutti i numeri per restituire speranza. Per farlo, però, i politici devono cambiare l’Italia. Iniziando dal cambiare la politica.
Ecco perché:
1. Riforma della legge elettorale. Modello legge elettorale dei sindaci: un vincitore – eventualmente con ballottaggio – che ha i numeri per governare. Se non governa è colpa sua, non ha alibi. Quando arrivano le elezioni i politici devono spiegare cosa hanno fatto, non inventarsi scuse sul perché non lo hanno fatto. L’Italicum va in questa direzione. è stato già approvato alla Camera. Sarà modificato dal Senato e diventerà legge definitivamente.
2. Riforma costituzionale. Superare il bicameralismo perfetto, che esiste solo in Italia. Semplificare il percorso legislativo per evitare l’eccesso di decreti legge. Ridurre e chiarire i poteri delle Regioni, eliminando le manie di grandezza di certi consigli regionali. Eliminare enti ormai inutili come il CNEL. Ridurre il numero delle persone che compongono il ceto politico, percorso già iniziato con le Province. In queste ore i senatori che sostengono la riforma e che stanno subendo l’ostruzionismo di una piccola parte dei loro colleghi stanno dimostrando il senso delle istituzioni più straordinario che si possa chiedere. Approveremo la riforma in prima lettura, nonostante le urla e gli insulti.
3. Riforme di sistema. Semplificare i tre settori in cui più forte è l’impatto nella vita quotidiana: pubblica amministrazione, fisco e giustizia. Nel merito. Sulla PA abbiamo il Decreto Legge al voto della Camera e il disegno di legge delega che sarà affrontato alla ripresa dei lavori parlamentari. La logica è che alla fine del percorso dei mille giorni un cittadino non farà mai più la coda a uno sportello pubblico, ma riceverà a casa – fisicamente o online – tutto ciò che gli serve: perché un certificato è un diritto, non una concessione. Il fisco ha visto l’approvazione dei primi atti della legge delega nella logica di semplificazione, il cui simbolo è l’invio a casa dei cittadini nel 2015 della dichiarazione dei redditi precompilata. Il che significa un fisco che si fida dei cittadini perbene e stanga i disonesti, senza andare a fare le sceneggiate mediatiche per un controllo in tv, ma incrociando le banche dati e facendole dialogare. La giustizia, per la quale è in corso la campagna di ascolto (stile della casa: prima di decidere si ascoltano i cittadini. Prima si ascoltano. Poi si decide. Ma sul serio) con l’obiettivo di dimezzare gli arretrati del civile, portare i tempi ai livelli europei (350 giorni contro 950 per il primo grado), garantire la certezza del diritto eliminando il ricorso alle prescrizioni perché il tempo non può sconfiggere la legge e sottolineando l’etica della responsabilità nei confronti di quegli operatori della giustizia che si comportano con dolo o colpa grave.
PA, fisco e giustizia sono accomunati da un fil rouge: diverranno punti di forza dell’Italia solo se riusciremo a fare una massiccia iniezione di nuove tecnologie. Il nostro obiettivo – che per me è una certezza perché so che su questo non possiamo fallire – è diventare uno dei Paesi leader mondiali del Governo attraverso la rivoluzione digitale e presenteremo il dettaglio dei programmi in Silicon Valley, cuore mondiale dell’ICT, a settembre.
Le riforme non sono il capriccio di un premier autoritario. Ma l’unica strada per far uscire l’Italia dalla conservazione, dalla palude, dalla stagnazione che prima di essere economica rischia di essere concettuale. Quelli che ti guardano, quasi con solidale comprensione, e ti dicono: Matteo, non ce l’abbiamo fatta fino ad oggi. Non ce la faremo nemmeno stavolta. Eh, no. Io non lo lascio il futuro ai rassegnati. Questa è la volta buona, costi quel che costi. Perché se l’Italia fa le riforme, riparte la credibilità verso il sistema Paese e la speranza dei cittadini. Le riforme di cui stiamo parlando sono il PIN per accendere l’Italia del futuro. Ecco perché la mia gratitudine verso i senatori che resistono alla incredibile sequela di insulti e ai finti emendamenti messi lì solo per perdere tempo. C’è un Paese che può correre, non lo lasceremo ancora nelle sabbie mobili.
Ci conosciamo. E i lettori delle E-News sanno essere polemici. Prevengo dunque la critica di alcune email: Non si mangia con le riforme. Frase che condivido, anche se solo fino a un certo punto. Perché le riforme strutturali sono la principale richiesta di tutti gli operatori economici mondiali. Fatte le riforme, l’Italia sarà molto più appetibile. Ma accetto la critica. Non posso rispondere punto per punto su tutte le cose fatte. Ne cito solo alcune:
Lavoro: decreto legge Poletti, disegno di legge delega, piano per l’Export e il made in Italy, contratti di sviluppo, garanzia giovani, attrazione degli investimenti da tutto il mondo. Cliccate e ditemi che cosa ne pensate.
Infrastrutture: domani in consiglio dei ministri la discussione sullo sblocca Italia e l’apertura della fase di consultazione (mi dispiace, consulteremo i cittadini per il solo mese di agosto: ma le buone idee non vanno in ferie. Fine di agosto dobbiamo essere operativi con i provvedimenti!).
Europa: il messaggio di Juncker di più flessibilità e l’annuncio dei nuovi investimenti per 300 miliardi sono ottimi primi passi e una innegabile vittoria delle proposte italiane. Adesso vigileremo perché si passi dalle parole ai fatti. Noi nel frattempo abbiamo iniziato a spendere in modo diverso i fondi europei troppo frammentati e divisi.
Abbiamo naturalmente fatto anche altro. Abbassato le tasse per ceto medio e imprese con gli undici milioni di famiglie con l’operazione 80 euro che è una piccola goccia nel mare, ma segna una inversione di rotta: anziché fare le manovre per chiedere i soldi, si fanno le manovre per dare i soldi sia con la riduzione del 10% dell’Irap e del 10% della bolletta energetica per le Piccole e Medie imprese. Ma abbiamo lavorato su settori meno noti: dal libro bianco della difesa al patto per la salute, dalla sfida sull’agricoltura con il progetto Campo Libero fino agli interventi sulla competitività, dal decreto stadi (ci stiamo lavorando) fino alla declassificazione del segreto di stato su alcune vicende, ma quello che abbiamo fatto è ancora niente. Ci sono mille giorni davanti a noi dal primo settembre 2014 alla fine di maggio del 2017 quando, con calma e pazienza, libereremo l’Italia dai vincoli che non la fanno ripartire. Ma non potremo farlo senza una discussione pacata, seria e civile sul vero valore aggiunto del nostro Paese: la cultura. Che in Italia vuol dire musei, certo. Musica, arte, ricerca, turismo, innovazione. Ma vuol dire anche RAI che va tolta ai partiti per ridarla al Paese, Università dove possiamo valorizzare le vere eccellenze che abbiamo.
E soprattutto vuol dire Scuola. Dico soprattutto non perché io sia fissato – ok, confesso che lo sono – ma anche perché lì si gioca tutto. La crescita economica, la dignità dell’insegnamento, il patto educativo con le famiglie, la qualità della vita nelle città. È lì, è tutto lì. Tra dieci anni saremo giudicati non per lo “zerovirgoladipil”, ma sul se saremo stati capaci di ridare dignità alla scuola e all’educazione italiana.
Siamo partiti dall’edilizia scolastica e abbiamo aperto i primi cantieri. Quello più importante richiederà tre mesi di consultazione con le famiglie e i docenti e comprenderà gli argomenti da studiare, la formazione e l’assunzione del corpo docente, il rapporto con il territorio e l’autonomia. Questo è il cantiere più impegnativo. Ma anche quello più bello. Perché si fa politica per questo, non per tre poltrone in più o in meno. E l’Italia deve tornare a essere fiera della propria scuola. Ci vorranno nottate in Senato, pomeriggi alla Camera, weekend a Palazzo Chigi non importa. Noi con calma e determinazione riporteremo questo Paese là dove deve stare. Ad accogliere le donne che vengono incarcerate per la loro fede religiosa, a giocare un ruolo nei complicatissimi equilibri (o squilibri) di politica internazionale, a togliere polvere da un’Europa che non può andare avanti nella noia e nella burocrazia. Ma anche a rimettere a posto la palestra o il teatro di una scuola, ad aiutare il piccolo imprenditore stritolato da un ufficio pubblico o da un prestito in banca, a ridare un po’ di potere d’acquisto alle famiglie. Perché tra le cose che sono accadute in questi mesi c’è anche un fatto strano: il PD ha vinto le elezioni. Strano perché non accade così frequentemente, certo. Ma strano anche per la dimensione del risultato. Erano quasi sessant’anni che nessuno arrivava al quaranta per cento. Se ci siamo arrivati non è merito nostro. Non è il riconoscimento della nostra bravura, ma un investimento sulla speranza degli italiani. Non è una coccarda, ma un impegno. Non è una medaglia, ma uno stimolo. Ecco perché non molliamo di un centimetro. Ecco perché – passo dopo passo – faremo ciò che abbiamo promesso.
Un sorriso,
Matteo