La legge, ora, li ha ribattezzati, pomposamente, esami di stato, ma per tutti continuano a chiamarsi esami di maturità, come é giusto che sia.
Infatti questi esami costituiscono un discrimine, che si rinviene in tutte le società, dalle più arcaiche a quelle contemporanee e che ha il sapore di una mutazione socio-antropologica, fondamentale per ciascuno di noi: il passaggio dall’adolescenza all’età adulta.
Sembrano facili, dopo che li hai sostenuti, ma molti di noi li rivivranno nei loro incubi per decenni, un pò come accadeva a noi vecchi di oggi, per la chiamata al servizio di leva (io per decenni ho rivissuto nei sogni entrambe le vicende; e non erano, vi assicuro, per niente sogni piacevoli).
Prendo spunto inoltre dall’ottima rivista on line “scrivendovolo” (v. link sottostante) per raccontare un aneddoto personale che risale a uno dei primi esami di maturità ai quali ho partecipato come commissario interno (al tempo, in tale veste, eri solo contro tutti i commissari esterni; adesso, almeno, si é in numero pari, più il Presidente che é sempre esterno).
Si trattava di ammettere o non ammettere questo candidato; il classico “potrebbe fare di più non si impegna”; insomma uno dei tanti talenti che la scuola non riesce (e non riuscirà mai) a valorizzare.
All’epoca insegnavo nell’oristanese e credo di ricordare ancora il suo cognome, a distanza di venticinque anni circa (tanto l’episodio mi colpì, come primo impatto con quel mondo affascinante e complesso che, nel bene e nel male, é costituito dagli esami finali della media secondaria o superiore che chiamar la si voglia), ma il suo nome qui non ha davvero alcuna importanza.
Insomma il candidato aveva un quadro mediocre (in termini di voti significa che viaggiava sul cinque di media), anche se in italiano scritto aveva nove. Fu proprio quel suo voto eccezionale in italiano scritto, frutto di una indubbia abilità nello scrivere, che ci convinse a dargli una ” chance” (devo confessare peraltro, che questo della “chance” é un leit-motiv abbastanza ricorrente negli scrutini per l’ammissione agli esami di maturità; e aggiungo che esso é, a parer mio, connaturato in maniera essenziale, agli esami medesimi).
Il collega di italiano, con evidente modestia, attribuiva quelle sue spiccate capacità descrittive, al fatto che il ragazzo, aiutando i genitori a gestire un’edicola, leggesse moltissimi libri.
Lo stesso candidato confermò tale circostanza nel corso del colloquio, che impressionò non poco i commissari esterni.
In conclusione, l’appassionato lettore, nonché aspirante ragioniere, a dispetto della sua ammissione striminzita ed a maggioranza, ottene un punteggio pari a 48/60 (era pur sempre la media dell’otto!), mentre altri candidati ammessi con una media altissima, spuntarono un misero 40 e qualcuno addirittura un 36 (praticamente il minimo).
Ho sempre ritenuto che quella formula di esame (un solo commissario interno contro tutti i commissari esterni e con la scelta di una materia a piacere su quattro che, molto spesso, per compiacenza ed abilità dei commissari si riducevano a due), introdotta sperimentalmente nel 1968 e procrastinatasi stancamente sino al 1990, fosse eccessivamente aleatoria; inoltre penalizzava troppo il curriculum scolastico degli anni precedenti, a favore della genialità, brillantezza e improvvisazione del candidato nel corso del colloquio.
Ma a ripensarci bene, non rispecchiava di più il senso e la bellezza della vita?
www.scrivendovolo.it/web/2012/06/19/maturita-i-lettori-forti-hanno-meno-problemi/