Le radici nel cuore
di Monica Martinelli
Maurilio Riva è un tipo di idealista convinto della necessità della “buona volontà” per provare a cambiare il mondo. La sua formazione umana e di scrittore ha origine nei giorni lontani delle lotte operaie, in giorni in cui studiare, tenersi informati, lottare concretamente per i propri diritti faceva parte di una quotidianità che oggi sembra impraticabile.
Ha pubblicato nel 2006 il suo primo romanzo, Il sogno inverso di Tito Biamonti, di argomento partigiano e, prima, vari racconti su riviste, antologie e blog, continuando attraverso la scrittura un rapporto con il passato (il suo personale e quello di un intero paese, il nostro) a cui non guarda con nostalgia e indulgenza ma con la franchezza e l’onestà necessarie per andare avanti e superare le brutture, del passato e del presente.
Il suo lavoro di scrittore, affrontato con metodo e serietà, sostenuto dall’idea che la letteratura debba anche essere utile, è lo strumento con cui oggi, lucidamente e con la coscienza del cambiamento, esprime le stesse idee di libertà e giustzia sociale in cui credeva un tempo.
Il suo ultimo romanzo, 2022 Destinazione Corno d’Africa è, per usare un’espressione del suo autore, un libro sui generis, e come ogni opera che si discosti dagli standard previsti per un determinato genere letterario richiede, nel tentativo di darne una definizione, che si lascino da parte i criteri di analisi usati solitamente per un romanzo e di mettere in campo strumenti interpretativi diversi.
Un romanzo. Certo, il libro di Maurilio Riva è un romanzo, perché c’è una storia con un preciso intreccio, personaggi ben definiti – principali, secondari, comparse, tantissime comparse ritratte in primi piani intensi, in campi lunghi e lunghissimi dove alla fine ciò che resta sulla pagina e negli occhi è un paesaggio sconfinato e ancestrale, forse l’unico vero e imparziale testimone della Storia – e c’è un narratore esterno che guida il lettore lungo il viaggio della finzione, cioè quello compiuto dal giovane protagonista, Augusto Cervantes, e quello del lettore, di ogni lettore che per conto proprio compie un viaggio personale, un’esperienza unica, lungo il percorso della lettura.
Non che sia necessario dare definizioni, anzi. Affibbiare etichette, per quanto utile, risulta il più delle volte riduttivo, come in questo caso, ma la recensione di un libro richiede pur sempre un minimo di coordinate, se non altro, per un orientamento iniziale, per l’avvio del viaggio. Poi ci si può anche perdere, tenuti per mano dall’autore che ci aiuta a vederci chiaro in una storia, come questa, impostata un po’ come un giallo, e nella Storia, quella grande, nei confronti della quale l’autore si comporta come uno storico con lo spirito del giornalista d’assalto intenzionato a scoprire la verità, avendo sempre cura di non frustrare il lettore ma, al contrario, di aiutarlo a capire.
Il libro narra del viaggio verso il Corno d’Africa, nel 2022, di un giovane italiano di sangue misto, Augusto Cervantes, intrapreso per eseguire le ultime volontà dell’amatissimo nonno Rirì, il quale, in una memoria post mortem, lo invita a mettersi sulle tracce africane – rimaste per anni un mistero per tutta la famiglia – del bisnonno Luca, aviere volontario nel 1935 in Somalia, Abissinia, Eritrea.
Durante il viaggio, attraverso un dialogo continuo con il nonno che ha scritto per lui un itinerario da seguire che è un libro nel libro, Augusto incontra persone, paesi, culture diverse, cresce, diventa grande, completa la sua formazione che a 25 anni è solida di basi teoriche (laureato a pieni voti in matematica, appassionato di musica jazz, letteratura, arte, abilissimo negli sport) ma ancora acerba delle cose della vita, tanto che alla fine del viaggio si realizza la chiusura perfetta del cerchio, quel ritorno a casa, alle proprie radici, che è il motivo per cui il giovane era partito spingendosi fino in Africa alla ricerca delle ragioni che spinsero il suo avo a partecipare a quella impresa folle che è stata la conquista dell’Africa Orientale.
Ma le radici più che nella terra, sono nel cuore, è questo che impara Augusto nel suo viaggio, ed è questa l’esperienza che Nonno Rirì vorrebbe far vivere al nipote, un nipote che di radici se ne intende essendo figlio di un venezuelano e un’italiana e facendo parte, in quel 2022 presagito ma praticamente già arrivato, di quella generazione meticcia dell’agire e del fare che l’autore ci indica come la sola speranza di salvezza per il mondo. Il futuro è nelle loro mani o tragicamente non sarà, viene avvertito il lettore.
Le radici sono nel cuore, dicevamo, e il cuore caldo e intimo di questo libro è quello che batte nel petto del co-protagonista della storia, Nonno Rirì maestro, precettore, guida, angelo custode dell’amatissimo nipote, figlio, come lo chiama a un certo punto, figlio per il legame speciale che li unisce ma anche figlio della Terra, di questa Terra che i padri hanno martoriato e portato sull’orlo del baratro, come apprendiamo nel capitolo introduttivo, la premessa a tutta la vicenda.
Ma, come detto all’inizio, questo è un romanzo anomalo, scritto utilizzando più livelli di scrittura e diverse tipologie di narrazione: epistolare, cronachistica, storica, diaristica, romanzesca, enciclopedica, perché Maurilio Riva è uno scrittore che ama le sfide, che intende la scrittura come sperimentazione stilistica e luogo di confronto.
Il confronto, la voglia di praticarlo, che è la modalità di stare al mondo dell’autore (grafomane della miglior specie, uno che concepisce il web come il più grande strumento per giungere alla consapevolezza dopo la scoperta dell’inconscio da parte di Freud) si esprime sulla pagina attraverso una costruzione della storia mai lineare (già sperimentata nel romanzo precedente) non nel senso di contorto o complicato, anzi, esattamente il contrario: una sola voce non basta a raccontare come stanno le cose: per capire (e forse, perdonare) è necessario mettersi in ascolto, andare alla ricerca di quelle voci che non hanno potuto esprimersi o che si sono perse nei meandri del tempo. All’autore, affamato di storie e appassionato di vite altrui, preme che queste vite si rivelino, che escano dal silenzio, che raccontino la propria versione dei fatti, la propria verità. Che si tratti di un avo la cui esperienza fascista in Africa è quasi un mistero, di popoli interi costretti al silenzio dalla guerra e dall’odio, quello che conta e far sentire la loro voce. O almeno provare a farlo perché dove i documenti della storia tacciono allora interviene l’immaginazione dell’autore.
Quella di Maurilio Riva immagina ed orchestra quattro livelli di scrittura, compresa la voce del narratore che introduce il lettore nel “2022” e tiene le fila di tutto aggiornando, informando con precisione maniacale, riportando versioni, documenti, considerazioni importanti su eventi storici, descrizioni dei paesaggi africani, dei mari, dei venti, delle ere geologiche, delle chiese rupestri, di come si costruisce un cargo, una diga, un pozzo e una macchina fotografica negli anni trenta e altro ancora, molto altro.
È la voce dell’autore, quella della narrazione pura, che in Maurilio Riva si esprime al meglio quando deve raccontare i fatti, cioè come stanno le cose, si tratti della verità di un volto (fra i tanti esempi possibili, la descrizione di quello di Egidio Cabras, uno dei personaggi che Augusto incontra sul cargo diretto in Africa), dei retroscena legati alla costruzione del canale di Suez o dell’elenco delle fotografie trovate in casa del bisavolo di Augusto (padre di nonno Rirì) messe in fila una dietro l’altra e descritte come un’elenco della spesa, una sorta di litania che io trovo stilisticamente efficace, vicina alla poesia.
E, a proposito di queste fotografie, nel capitolo intitolato “I dagherrotipi del bisavolo”, l’autore rivela, senza che il lettore lo percepisca chiaramente, come è stato costruito il personaggio del bisavolo, il suo periodo africano, come l’abbia reso verosimile e credibile partendo da pochissimi dati, immagini stampate con scarne annotazioni sul retro. Le immagini, dice l’autore, sono già missive, basta saperle leggerle, si potrebbe aggiungere, immaginandovi la vita tra le poche righe vergate.
Gli altri tre livelli sono le voci dirette dei tre protagonisti: quella di nonno Rirì che si rivolge al nipote dall’interno di quello che nel primo capitolo viene definito L’ultimo libro, espressione dal sapore fenogliano (scrittore caro al nostro autore) per la sua risonanza biblica, le sue memorie/memorandum scritte apposta per il nipote, una sorta di libro nel libro, un metalibro virtuale che sostanzia quello reale (o voce che arriva dall’aldilà, o da un qualunque posto da cui le anime possano guardare le persone che amano rimaste sulla terra e proteggerle?), e le voci del bisavolo Luca e quella di Augusto che è la risposta al dialogo ininterrotto con il nonno che è di fatto, e in virtù di questo dialogo, presente quasi fisicamente durante tutto il viaggio.
Da notare che mentre la voce di Luca viene riportata sulla pagina con un corsivo che imita una calligrafia d’altri tempi, le voci del nonno e del nipote vengono rese con lo stesso corsivo, quasi a voler sottolineare quanto il loro speciale legame li faccia confondere e perdere l’uno dell’altro.
Per quanto riguarda i contenuti, al di là della mole preziosa di notizie che l’autore immette assecondando – non solo la sua passione per la storia, soprattutto per le vicende politiche dell’Italia nel ‘900 – per tutte le discipline del sapere, il contenuto sotteso che percorre tutto il libro come un fiume sotterraneo lunghissimo e salvifico è la speranza che le cose possano veramente cambiare. E questo è chiaro fin dall’inizio, addirittura da quel prologo che si apre mostrando il disastro di una catastrofe ormai avvenuta ma da cui, apprendiamo leggendo, in quel 2022 in cui la generazione del fare ha sbaragliato quella del distruggere, si sta finalmente uscendo.
In conclusione – anche se molto ancora potrebbe essere detto – 2022 Destinazione Corno d’Africa è un romanzo ottimista, pieno di fiducia e anche di amore. Tutte cose di cui l’umanità ha oggi veramente bisogno.