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Maxi Dampyr 4: l’orrore della banalità

Creato il 05 settembre 2012 da Lospaziobianco.it @lospaziobianco

Come spesso mi accade in agosto, entro in un’edicola e cerco qualcosa di diverso. Il tempo a disposizione, l’afa, il movimento dell’acqua rendono tutto più dolce, più sublime. E la mente ricerca cose più leggere ma essenziali. Da queste premesse avrei dovuto sapere che comprare il nuovo Maxi Dampyr (quarto appuntamento annuale) sarebbe stato un errore. Eppure, una certa leggerezza nelle scelte a volte aiuta a fare scoperte inattese. Maxi Dampyr 4: l’orrore della banalità> LoSpazioBianco" />> LoSpazioBianco" height="364" width="280" alt="Maxi Dampyr 4: lorrore della banalità >> LoSpazioBianco" class="alignright size-full wp-image-55726" />
Non è questo il caso, purtroppo.

Dampyr è un personaggio il cui concept non ho mai davvero capito. Non sono mai stato abbastanza coinvolto dalle storie per seguire con regolarità la serie e, di conseguenza, la diluita continuity che si è sviluppata negli anni. Per me, i personaggi di Dampyr sono puro anonimato. Nessuna affettività. Il protagonista stesso, Harlan Draka, è per me l’incarnazione di uno strano avventuriero senza peso, come sospeso in una nebbia fatta di pezzi di altri personaggi, altri riferimenti narrativi (anche letterari) senza che vi sia stata una riuscita precipitazione in una sintesi efficace.
Da qui, due conseguenze: nessun attaccamento emotivo al personaggio, ovvero nessuna accondiscendenza (ed è un bene); perdita di qualunque riferimento narrativo interno alla serie (ed è un male). Ogni storia è come se fosse la prima.

Ma qualche buona storia l’ho letta.
Il papà di Dampyr, Mauro Boselli, è un abile professionista, con una lucidità rara e la capacità di raccogliere da più parti riferimenti e intuizioni per imbastire storie preziose. E sa lasciare qualche segno sui lettori. Quella cosa che ti sporca un po’ l’anima o la coscienza, e anche se sai che si rinnova professionalmente mese dopo mese, che diventa (solo) un lavoro, una serie “popolare” può far più male di mille opere d’autore. Eppure dare vita a una serie autonoma, dare realmente senso e vita a un personaggio, è un’altra cosa. E da questo punto di vista, quello che ho letto finora di Dampyr sa di fallimento (malgrado la sopravvivenza in edicola, malgrado i tanti lettori, insomma, malgrado il successo più o meno grande che ha avuto finora).

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C’è un elemento aggiuntivo che mi ha spinto a comprare questo malloppo di quasi trecento pagine: tutte e tre le storie sono scritte da . Ecco, se Dampyr è per me una nebbia nel mare magnum dei fumetti popolari, Cajelli è l’enigma degli autori seriali. Troppo intelligente, simpatico, vitale come persona per poter realizzare storie così… sciocche, è la parola che più trovo calzante, come quelle contenute in questo speciale.
Ma questo lo scopro solo dopo, dopo aver terminato con grande fatica le tre storie. E ammetto che chiusa la prima, avrei voluto lasciar perdere. Ma l’afa, il movimento delle onde, quel profumo di crema protettiva nell’aria mista all’odore di prato appena tagliato nel parco accanto che sa quasi di anguria… non ho desistito. Sono stato bravo, ho svolto il mio compito, ho letto tutto, ogni singola parola, ogni singola tavola, anche quando la noia e l’irritazione mi avrebbero consigliato di andare veloce, saltare di qua e di là, arrivare a una conclusione. Sono stato professionale, almeno quanto Cajelli. Ma non  è questo che si deve chiedere a un lettore. Non l’impegno e la fatica. Ma la passione. Nessuna passione in questa lettura.
A essere coerenti, professionali e pedanti, anche la recensione di questo Maxi Dampyr avrebbe dovuto seguire un’impostazione diversa.

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In tre storie tre di quasi cento pagine, formato Bonelli, non si registra nessuna nota positiva, se non qualche guizzo artistico nel disegno di (terza storia, fuori tempo massimo). Ma andiamo un poco con ordine.

Nella prima storia c’è un esperimento scientifico pseudo-ecologico. Una buona idea. Non nuova ma buona. Il tutto si rivela una copertura per qualcos’altro. Non svelo niente, è scritto in quarta di copertina. Cajelli non cura nulla: non il ritmo, non la caratterizzazione dei personaggi secondari (grande occasione persa, visto il potenziale “umano” che la fabula offriva), non l’efficacia “orrorifica” dei mostri, non l’intreccio che muove i personaggi, non la messa in scena del protagonista (piatto, anonimo, al limite dell’anomia). I mostri non fanno paura, la paura non è mostruosa.
Seconda storia: entra in scena Scooby-Doo. In un horror di impostazione “classica” (si dice sempre in quarta di copertina), la sceneggiatura tocca livelli inaccettabili di banalità e inconsistenza. Harlan Draka si muove come uno zombie in una piccola cittadina di mare. I cittadini sono provinciali nei fatti (narrativi) e i dialoghi non hanno pietà. Colpisce in negativo la sequenza del toga-party sulla spiaggia in cui muoiono alcuni giovani locali. Le ragazze (anonime) si scambiano commenti (anonimi) su Harlan (“Il bel tenebros

o” e via dicendo); una coppia si apparta per un po’ di intimità in un rituale (narrativo) così schematico da sembrare una caricatura, fino alla comparsa del fantasma di turno. È in quel momento, davvero, che mi sono chiesto dove diavolo fossero finiti Scooby-Doo e Shaggy. La caduta di tono, lo stravolgimento del genere (da horror a commedia) non voluto, non cercato, è la peggiore delle situazioni che uno sceneggiatore può realizzare
Nella terza storia non accade nulla. È tutto già predestinato. Le prime due storie preparano al peggio, e il peggio non arriva (difficile dopo la seconda storia) anche grazie a Baggi, come detto, ma non c’è un guizzo, un’emozione, un sentimento. Anche qui, tuttavia, colpisce la piattezza della sceneggiatura per la poca cura nelle motivazioni alla base della storia, in particolare riguardo il coinvolgimento di Harlan Draka nella vicenda. E stordisce per la lettura di tutti quei dialoghi semplicemente brutti. Utilizzo quest’ultima frase decisamente forte e sintetica per intendere almeno tre cose: i dialoghi sono impersonali e schematici. Non sono caratterizzati, non offrono informazioni pertinenti in merito a chi sono i personaggi, a come pensano, a cosa vogliono, ecc.; la comunicazione tra i personaggi è esclusivamente strumentale allo sviluppo della trama e, in quanto tale, spesso pretestuosa o ridondante; i dialoghi non trasmettono alcun coinvolgimento emotivo al lettore. 

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A questo punto arrivano le domande.

La prima riguarda l’horror: quale senso ha realizzare un seriale horror nel nuovo millennio? Quali corde dovrebbe toccare nel lettore? Come potrebbe connotarsi all’interno del panorama avventuroso di casa Bonelli? Come (se mai) dovrebbe rispecchiarsi il reale, la nostra quotidianità, all’interno del paradigma orrorifico di riferimento? Leggendo queste storie di Dampyr, il senso non c’è, si perde in un lavoretto che neppure eccita, neppure trasmette adrenalina, se anche solo questa fosse la sua vocazione, ovvero rispondere ai bisogni “primari” dei lettori. Si respira solo il qualunquismo di una narrativa stanca, vecchia e refrattaria (questa sì, forse, purtroppo, un riflesso del nostro quotidiano).

La seconda riguarda Cajelli. Dov’è finita l’intelligenza, la sagacia, la voglia di giocare, di sperimentare, di … rischiare? Vincoli o limiti imposti dalla casa editrice o adeguamento personale (professionale)? È possibile trovare strade diverse per raccontare nell’ambito del formato Bonelli? La risposta implicita è sì. Ma la domanda vera che riguarda il nostro sceneggiatore è dove sia finita la sua personalità di autore. Ne vediamo l’ombra, ne sentiamo il respiro affannato, ma manca la vitalità, una sua voce autonoma.

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La terza (e ultima per questo già troppo lungo articolo) riguarda Mauro Boselli: in qualità di curatore della testata, è accettabile un tale approccio alla serie e al personaggio? Se sì, come sembra evidente, si conferma la mancanza di chiarezza in merito al senso stesso della serie, che a questo punto appare un semplice pretesto per raccontare storie di genere dalla qualità e incisività quanto meno altalenante. Sarebbe interessante capire che grado di coinvolgimento, di “interferenza” o di collaborazione attiva viene realizzata da Boselli stesso sulle sceneggiature altrui. Ho sentito parlare del suo rigore, della sua attenzione nel lavoro con altri collaboratori. E mi chiedo se il suo occhio professionale si indirizza verso una “normalizzazione” del lavoro altrui e se è questo, ancora, il caso per un autore con una buona esperienza in Bonelli come Cajelli.

In fondo, il punto di conflitto, o di equilibrio per un prodotto seriale è sempre lo stesso: rinnovarsi senza rinnovarsi mai. La quarta uscita annuale di Maxi Dampyr è un ottimo esempio in negativo di tale processo, che meriterebbe a mio avviso ulteriori approfondimenti. 

Abbiamo parlato di:
Maxi Dampyr #4
Diego Cajelli, Marco Santucci, Giuliano Piccininno, Alessandro Baggi
Sergio Bonelli Editore, 2012 
292 pagine, brossurato, bianco e nero – 6,50€

 

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