Quando eravamo piccoli ci facevano giocare al “gioco del silenzio”. Non so se a voi è mai successo. Di solito capitava quando il numero dei bambini presenti in una stanza superava le cinque unità e il grado di eccitazione ed euforia collettiva aumentava esponenzialmente con il passare dei minuti.
Il gioco aveva una semplice regola: si sta in silenzio. Il primo che parla paga pegno. Si facevano smorfie, gli occhiacci, si fingeva di guardare il soffitto, si resisteva molto poco, si scoppiava a ridere di frequente.
Io dovrei ricominciare, quando sono in compagnia, a giocare a quel gioco per i fatti miei e a cronometrare se faccio progressi.
Non sono una persona chiusa: ho imparato a mie spese che è meglio esprimersi e raccontare la propria versione degli eventi privati che non aspettare di sentirla in giro raccontata, storpiata e commentata, dagli altri. Sono arrivata a questo con fatica ma mi ci trovo bene e, per ora, non vedo motivo di non fare altrimenti.
Sono in grado di intrattenere conversazioni con persone di ogni estrazione sociale, anche se fatico a trovarne la voglia in mezzo ad individui insulsi, davanti a chi è tutta luccicante apparenza e grigia, paludosa sostanza. Questo è un bene, aiuta a rompere il ghiaccio, a tirare alla agognata conclusione un incontro noioso.
Parlo – capita – perché sono nervosa e il silenzio mi imbarazza. Questo non va: rischio di perdere il controllo ed esagerare con frasi inutili e prive di intelligenza.
Sproloquio– capita pure questo – perché spero che la persona con cui lo faccio sia in grado di mantenere un certo riserbo sul contenuto della conversazione, per creare un legame, di amicizia o di collaborazione lavorativa. Questo non va bene assolutamente. E’ da farsi a piccole dosi, solo con chi si è dimostrato degno di fiducia sul lungo periodo. Devo combattere con la biologia femminile e la relativa propensione al dialogo, alla chiacchiera, alla confidenza. Devo ricordarmi di come sto quando scopro che quello che ho detto, a cervello disconnesso e in totale buona fede, è stato preso, rivoltato, manipolato, riportato, strumentalizzato e mi sta tornando indietro con la velocità di un siluro puntato diritto nella mia direzione.
Due anni per imparare a parlare, una vita per imparare a tacere.