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Una concezione gnostica?
Amfortas, il Re Pescatore o Re Ferito, è un personaggio che figura in alcune opere del ciclo arturiano come ultimo discendente della dinastia dei Re del Graal, custodi della preziosa reliquia. E’ caratterizzato in modi anche molto differenti dai vari autori. In ogni caso, soffre di una menomazione alle gambe o ai genitali ed ha difficoltà a muoversi. L’invalidità si riverbera sul suo regno che si è trasformato in un luogo deserto e sterile: è "la terra desolata", la "terre gaste". Il Re trascorre il tempo pescando in un fiume nei pressi del castello di Corbenic. Molti cavalieri erranti si recano dal Re Pescatore per sanarlo, ma il miracolo potrà essere compiuto solo dal prescelto destinato a trovare il Graal (nelle storie più antiche Parsifal; in seguito anche Galahad e Bors).
La ferita del Re Pescatore si collega ad una punizione per peccati o colpe. Le opere in cui la leggenda è cristianizzata sviluppano questo motivo, instaurando un'analogia tra la ferita del Re Pescatore e la lesione al costato subìta da Cristo sulla Croce. L'arma è la stessa: la lancia del destino.
ll Re Pescatore fu introdotto per la prima volta nell'opera di Chrétien de Troyes dove Parsifal incontra due sovrani feriti. Scopre troppo tardi che ambedue avrebbero riacquistata la salute, se avesse chiesto loro del Graal. Parsifal apprende anche di essere discendente dei Re del Graal, giacché sua madre è figlia del Re Ferito. Il poema si interrompe prima che Parsifal torni al castello dei due sovrani.
La scelta dell’appellativo "Re Pescatore" può essere ricondotta ai seguenti ambiti simbolici. Nel Cristianesimo primitivo il pesce evoca Cristo, in quanto “ichtys” è l’acrostico in greco di Gesù Cristo, figlio di Dio Salvatore e poiché la nuova religione si diffuse all’alba dell’era astrologica dei Pesci. Nella mitologia celtica, il pesce (il salmone) è collegato alla saggezza. Un’altra implicazione sarebbe suggerita dall'assonanza fra le parole francesi pêcheur e pécheur, rispettivamente "pescatore" e "peccatore". Il Pesce potrebbe alludere alla costellazione ed all’era dei Pesci, con tutte le sue risonanze allegoriche: questo spiegherebbe perché, nell’opera di Chrétien de Troyes, i re infermi sono due.[1]
“Parsifal” è l'ultimo dramma musicale di Richard Wagner, andato in scena il 26 luglio 1882 a Bayreuth, ma rappresentato nei teatri europei solo a partire dal giorno 1 gennaio 1914 con la "prima" a Bologna.
Dopo una gestazione durata alcuni decenni, l'opera fu composta tra il 1877 ed il 1882 e segnò il ritorno al tòpos del Graal, già affrontato molti anni prima in “Lohengrin”.
Considerato il capolavoro di Wagner, ricevette gli strali di Nietzsche che accusò l’artista di essersi miseramente "accasciato ai piedi della Croce", mentre Marinetti considerò “Parsifal” il segno della decadenza della cultura occidentale. Questo dramma mistico (definito da Wagner "sacro per eccellenza" e che costituisce il vertice della concezione "liturgica" del dramma musicale come Wagner lo intendeva) è permeato di significati spirituali ed iniziatici.
Tuttavia - come scrive il professor Andrea Bedetti - nemmeno Nietzsche si accorse che le allusioni religiose del “Parsifal” non sono riconducibili ai dogmi cristiani, ma alla dimensione imperscrutabile del sacro.
Alcuni particolari del dramma collocano Parsifal nel solco di una concezione gnostica? Il tema della Madre – Parsifal è cresciuto nel cerchio esclusivo dell’amore materno – sottintende Sophia? La piaga che affligge Amfortas è la lacerazione cosmica? Per ricomporre lo strappo dell’universo è necessario un eroe che racchiuda in sé qualità sublimi. Quest’eroe è il Salvatore, il Redentore che redime sé stesso: Egli getta il seme della salvezza in un mondo infetto (la piaga di Amfortas) per propiziarne la palingenesi o, meglio, per emancipare le anime dal carcere della materia.
In filigrana allora leggiamo, nelle storie del Graal, soprattutto se ne valorizziamo l’’indiscutibile sottofondo cataro, l’anelito verso la l’ascesa dell’anima, il kerygma della liberazione.
Wagner si avvicinò al senso profondo della leggenda? Che cosa significa, però, che il tempo si trasforma in spazio? Che senso recondito hanno simboli come il Graal (calice, pietra, stirpe reale, smeraldo di Lucifero o che cos’altro?), la lancia, la terra desolata, la madre…? Si ha a volte l’impressione di imbattersi in un’espressione culturale involuta, tortuosa dove gli oscuri emblemi si “chiariscono” solo con altri emblemi ancora più oscuri. I diversi autori rielaborarono il mito, integrandovi qualcosa di proprio, ma, come un fiume in cui non si possono distinguere le acque degli affluenti, essendo mescolate, così in questa saga polimorfa non riusciamo a discernere un contributo da un altro. A complicare ulteriormente il quadro, si aggiunge la pletora degli interpreti sempre pronti a fornire chiavi di lettura più ingegnose che convincenti.
Fermiamoci un attimo. Questo mito non sembra aver alcun senso… come molte altre cose.
[1] Philip K. Dick, nel romanzo “Valis”, anche se in un contesto di “finzione” narrativa, ipotizza che il glifo dei Pesci adombri la doppia elica del D.N.A., dunque una memoria genetica. Il visionario autore radica la leggenda del Graal in numerosi ed eterogenei substrati culturali, incluso il retaggio dei Dogon che raccontano di Nommo, un dio rappresentato in forma di pesce.
Fonti:
C. Cagigal, A. Ros, Figli del sangue reale, Milano, 2008
Enciclopedia del Medioevo, Milano, 2007. s.v. Graal, Perceval
P.K. Dick, Valis, Roma, 2010
A. S. Mercatante, Dizionario universale dei miti e delle leggende, Roma, 2001, sv. Parsifal
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