I Megafaun sono una band del North Carolina composta dai fratelli Bradley e Philip Cook e Joe Westerlund, un trio assolutamente stravagante, ma, al tempo stesso, dotato di gran classe.
Hanno suonato in passato con Justin Vernon nei DeYarmond Edison, il quale decise, quando questa formazione si sciolse, di fondare i Bon Iver.
In questo terzo album del 2011 ( intitolato Megafaun) si fanno accompagnare da una nutrita schiera di ottimi musicisti. Il loro genere è un misto di psichedelia e Folk-Rock. I paragoni con Fleet Foxes, Iron & Wine e vari artisti della scena folk ci stanno tutti, ma solo incidentalmente, per la vicinanza alle comuni radici: Neil Young, The Band, The Byrds, Grateful Dead e in generale tutta la scena della Laurel Canyon.
L’album è uno stupendo esempio di come il folk più puro riesca a fondersi con la sperimentazione e sembra di ascoltare non un rifacimento dei nostri giorni, non un qualcosa di revivalista, ma una grande opera incisa negli anni ’70. Questo lavoro, denso e profondo, è inoltre suonato benissimo tecnicamente.
Tanto è vero che Justin Vernon ha dichiarato: “Ho ascoltato il loro nuovo album e ho pianto. È perfetto”.
Ora, non sappiamo se ha pianto per l’emozione che gli suscitava l’ascolto oppure perché, magari, pensa di essersi lasciato sfuggire l’occasione di continuare a suonare con loro.
Ma passiamo alle tracce:
Real Slow: splendido pezzo d’apertura dalle note allungate, tipiche della provincia americana. La voce ricorda Jerry Garcia e i suoi Dead. Sembrano avere il piglio e l’atteggiamento da jam band con quei momenti dilatati che la mente associa agli attimi “space” tipici dei Black Crowes in concerto. Si ha come la sensazione di stare immobili, simili a lucertole, rivolti con il viso verso il sole più arancione. Parte del testo recita così: “Take your time ’cause everyone knows That if it starts too fast it’s gonna end real slow.”
Il secondo brano These Words è fortemente psichedelico. Molto presente la componente rumoristica ed elettronica. Come funghetti allucinogeni, spuntano da un substrato più anglosassone che americano, alcuni echi a metà tra i Pink Floyd primo stile e qualcosa di indecifrabilmente nuovo. Sicuramente elegante ed assurda.
La romantica introduzione di piano di Hope you know è contrastata dal sottofondo ancora una volta intelligentemente rumoristico. La batteria è dilatatissima, quasi dub. Questa love song ancora il passato (la The Band ad esempio) alle nuove esperienze sonore.
Se già These Words è particolare, Isadora è una vera sorpresa. L’ascoltatore immerso nella sonorità calda e avvolgente di Hope you know viene ridestato e trasportato in uno sconvolgente contesto che fornisce un notevole contrasto con l’ambiente creato sino ad ora.
La partenza è all’altezza del miglior John Zorn, stralunatamente avant-jazzy, ma anche di Ornette Coleman con il suo stile purificato dagli schemi e con il suo fluire di note assolutamente libero. Il pezzo prosegue ricordando vagamente le sonorità dei Phish, ma in acustico. Ma questa non è solo una dimostrazione di bravura tecnica, il brano pone in essere un piacevolissimo break strumentale.
Con Second Friend si riprende il cammino precedentemente interrotto. Ci rimanda tanto ai Byrds quanto ai suoni educati e cortesi dei Beatles, con echi leggeri di Lennon a punteggiare un brano malinconico eppur divertente. I fiati e le belle chitarre fanno da contrappunto evidenziando proprio questa “gentilezza inglese”.
La leggerezza e la potenza sono ben evidenti in Resurrection. Ancora una volta, i Megafaun si ispirano al southern e agli anni ’70. Un bell’assolo in slide, sopra un tappeto di chitarre acustiche e l’hammond rende il risultato finale all’altezza dei più grandi pezzi figli di quegli anni,.
Kill the horns è un delicato dialogo a tre: chitarra elettrica, piano e voce. Una voce calda e graffiata dal caldo vento del sud.
Grazie a Scorned i Megafaun fanno rivivere le atmosfere bluesy e country, fortemente dilatate, con quelle stonature della voce che rimandano a Eddie Vedder. Il riferimento è senza dubbio il Delta del Mississippi; torniamo idealmente a quella “terra di mezzo”, annusiamo l’odore di praterie lontane e sentiamo ancora un vecchio pathos mai sopito che sembra liberarsi dall’assolo di armonica distorta. Straziante! Sono le sensazioni a contare, con questa band. Sembra di stare ad aspettare uno di quei treni spesso citati dai padri del blues nelle loro songs. Parte del testo: “I have been scorned. I have been burned. I have been stoned. I have been torn bad”
Ed ecco Serene Return,l’inaspettato pugno in faccia che però fa piacere! Nei due minuti di ode elettronica, Rumori e ambient, blues e dub la fanno da padroni.
Sembra di ascoltare la summa di tutto il folk raccontato sino ad ora, in You are the light. Molto inglese, con un ritmo cadenzato, quasi da valzer. I rimandi sono ancora una volta Floydiani. E il finale con il ricco arrangiamento di fiati lo fa sembrare ancor di più un pezzo d’altri tempi.
La citazione del penultimo pezzo (State Meant) è sin troppo palese: Cortez The Killer di Neil Young, almeno sino a prima del bridge-ritornello. Gran bel pezzo di Pop moderno ma dal sapore antico.
In Post Script: l’elettronica si intrufola negli interstizi lasciati vuoti dalle note, mentre una chitarra acustica suonata con il bottleneck spiega ulteriormente la filosofia su cui si basa questa band.
Le bonus tracks (Everything; ed una senza titolo) sono altrettanto valide quanto tutto quello che c’è stato precedentemente.
Megafaun è un piccolo, grande capolavoro, un nuovo classico.