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Meglio vivo: i perchè sulle ultime ore di Giuliano

Creato il 22 settembre 2010 da Casarrubea

di

Giuseppe Casarrubea

Meglio vivo: i perchè sulle ultime ore di Giuliano

www.castelvetrano.eu (archivio L. Corseri)

La storia delle origini dell’Italia post-fascista è ancora avvolta da molti misteri. Valga per tutti la vicenda della vita e della morte del bandito monteleprino Salvatore Giuliano, al quale quella storia è legata.

A tal punto che ci troviamo di fronte, ormai, ad un’icona che di quel periodo è espressione. Ne rappresenta, anzi, i lati più oscuri, difficilmente districabili. La saldatura, ad esempio, tra poteri istituzionali e poteri criminali che proprio in quegli anni si realizza su scala nazionale. Quando la criminalità politica diventa una necessità di Stato. Fino al punto che è possibile ipotizzare un archetipo fondativo della storia italiana lungo il filo nero che va dalla strage di Portella della Ginestra (1° maggio 1947) a quella di via D’Amelio (19 luglio 1992).

Una costante di tale verità è la costruzione di stereotipi.  Gli aiuti americani alla rinascita del nostro Paese, il mito degli italiani “brava gente”,  la scomparsa del fascismo, l’insorgenza di una classe di diseredati pronta a darsi il suo Robin Hood, la netta separazione tra Stato e Cosa Nostra e via di seguito. Se si afferra un bandolo di questa matassa, rotta in diversi punti, si può seguire il filo d’Arianna che porta fuori dal labirinto. Non è un’operazione semplice. Occorre sgombrare la mente dalle sedimentazioni che impediscono di scrivere una storia mai raccontata.

Giuliano è una cartina di tornasole. Inizia la sua carriera paramilitare come terrorista neofascista, prima nella Decima Mas badogliana e dopo nelle fila delle formazioni nere gravitanti attorno alle Sam (squadre di azione Mussolini), ai Far (Fasci di azione rivoluzionaria di Pino Romualdi), alla Brigata Nera “Manganiello” o al Fronte Antibolscevico. Gli americani lo segnalano già nel gennaio 1944 come un “picciotto dritto” e, dopo, come “capo di una banda fascista operante nella provincia di Palermo”.

Ma Turiddu non è il bandito montanaro. Si muove molto per l’Italia. I servizi segreti nostrani lo segnalano al bar del Traforo o in quello di piazza San Silvestro a Roma, frequentato da Mike Stern (Oss). Nella capitale il giovanotto – capelli impomatati e occhiali da sole – prende ordini dall’aristocrazia nera di orientamento monarchico-eversivo. Organizza così la strage di Portella della Ginestra e quella del 22 giugno ‘47. La mafia gli fa da scudo. A dirigerla, negli anni di piombo 1946-’47, c’è un nuovo raìs. Il mitra subentra alla lupara; il tritolo al taglio delle viti; la strage indiscriminata alla semplice vendetta personale. Quando spunta l’alba del 22 giugno, il giorno è segnato da una carica di tritolo che fa saltare in aria la centrale elettrica di Palermo.  In serata seguono gli assalti contro le Camere del Lavoro e le sedi di sinistra in ben sette comuni della provincia di Palermo. Questa volta l’obiettivo è mirato. E’ “l’infezione comunista”.  Giuliano agisce per conto terzi. A tramare ci sono membri del sottogoverno De Gasperi e boss di Cosa Nostra, mafiosi locali e personaggi politici. Tutti promettono e il “picciotto dritto” di Montelepre sta ai patti.

Dopo le stragi la parola data non è mantenuta. La promessa amnistia anche per i criminali è ancora lontana e Giuliano perde le staffe . A modo suo inizia un’azione di forza. Come un Totò Riina ante litteram. Bersaglio principale sono, questa volta, esponenti delle istituzioni e democristiani di spicco. La loro eliminazione è una vendetta trasversale, di avvertimento.

A novembre 1947 è ucciso il militare dei CC. Luigi Geronazzo, braccio destro dell’ispettore generale di Ps. Messana.  Il messaggio è: – “Non facciamo scherzi. Chi ha orecchie per intendere, intenda” – . Il vecchio ispettore di Racalmuto, anche se destituito, è il referente principale di Gaspare Pisciotta, di Salvatore Ferreri, alias Fra’ Diavolo, e  di altri criminali. Pisciotta dice che anche Giuliano è un confidente di Messana. Nel caso di Geronazzo, dunque, il messaggio lanciato dal capobanda è diretto. Come in tempi a noi vicini l’assassinio di Salvo Lima, il plenipotenziario della Dc in Sicilia.

Nel febbraio 1948 cade l’avvocato Vincenzo Campo, membro autorevole della Dc e candidato alle elezioni politiche di quell’anno. A luglio  è la volta di Santo Fleres di Partinico, capomafia e personaggio di spicco del partito di De Gasperi. Giuliano va sicuro come un “trattore”. Segue a ruota l’uccisione dell’alcamese Leonardo Renda, compare del ministro Dc. Bernardo Mattarella. Nonostante questa sequenza di morte, lor signori non dànno segnali di aver capito la lezione. E Giuliano alza il tiro. E’ la strage di Bellolampo: sette carabinieri saltano in aria su una mina. Il bandito ha attorno a sé una gabbia di Faraday, qualcosa di grosso che lo protegge. Più forte della mafia e del potere politico. E’ il suo vero Memoriale dove sta scritta tutta la verità su fatti e persone coinvolte negli affari stragistici, e tutto ciò che accade da Kappler, nella Roma ancora occupata dai nazisti, fino ai Far, all’Eca, e alle Sam. Ne è testimone Pisciotta che ai giudici di Viterbo dice che i due Memoriali, esibiti dagli avvocati ai giudici, sono falsi, che il vero Memoriale è altrove.

Meglio vivo: i perchè sulle ultime ore di Giuliano

Il corpo di Giuliano tenuto a distanza dalla folla (arch.Corseri- www.castelvetrano.eu)

Questo rosario di morte è una trattativa in cui a parlare sono le armi. Ma sotterraneamente le discussioni procedono anche attraverso incontri diretti e lettere. Al processo di Viterbo ne sono tirate fuori una dozzina. A trattare sono l’ispettore di polizia Ciro Verdiani e il capitano Antonio Perenze, il braccio destro del colonnello Ugo Luca, già uomo di fiducia di Mussolini. Sullo sfondo Cosa Nostra copre gran parte delle scene. Fino ai viaggi Palermo-Roma dell’inseparabile coppia di boss Miceli/Albano alla vigilia del falso conflitto a fuoco di Castelvetrano.

Che quel morto non sia Giuliano, dunque, appare un dubbio legittimo e doveroso. A suffragarlo con ulteriori elementi di sospetto intervengono altri  spunti di osservazione su cui sta indagando la polizia scientifica di Roma, su mandato della Procura della Repubblica di Palermo:

1)   i corpi giacenti nel cortile e nell’obitorio di Castelvetrano, ad una analisi medico legale condotta dal prof. Alberto Bellocco circa cinque anni  fa, sembrano molto diversi dal punto di vista somatico;

2)   elementi che avevano utilizzato lo Stato per coprire certe operazioni antidemocratiche, sotto la copertura di forze estranee al nostro Paese, avevano l’oggettivo interesse a consentire il mantenimento degli impegni assunti con il bandito consentendogli di espatriare in tutta sicurezza e di  avere per il resto della sua vita una sufficiente protezione;

3)   al mantenimento di tali condizioni esisteva di fatto un organismo di copertura ultrasegreto dipendente dal governo De Gasperi di cui si ha traccia in parecchia documentazione dei Servizi americani e inglesi. Tale organismo avrebbe potuto essere se non proprio identico, quanto meno analogo, al “Noto Servizio” o “Anello della Repubblica” su cui ha prodotto una approfondita ricerca Stefania Limiti;

4)   Diverse voci popolari, nell’area di Montelepre-San Giuseppe Jato, hanno da sempre sostenuto la convinzione che Giuliano fosse vivo negli Stati Uniti;

5)   A suffragio di tali voci, si è sempre registrata a Partinico, nelle vicinanze di Montelepre, la voce che alcuni membri della banda Giuliano fossero fuggiti via mare a Tunisi per imbarcarsi da qui per gli Usa (Manhattan, New York City). Tale voce troverebbe sostegno nel fatto che la banda Giuliano aveva realmente acquistato un motoscafo di seconda mano presso un proprietario di Castellammare del Golfo di cui si ha ampia traccia nel dibattimento del processo di Viterbo per la strage di Portella della Ginestra.

Risulta inoltre che dopo le stragi del 22 giugno 1947, Pasquale ‘Pino’ Sciortino e Francesco Barone s’imbarcarono per l’America, via Genova.  Un primo tentativo di espatrio collettivo risale al dicembre del ‘47; tutti si sarebbero dovuti trovare a Palermo; ma il piano fallisce perchè Giuseppe Passatempo giunge in ritardo. Altra decisione di espatriare, “anche da parte di Giuliano” (secondo Mannino) risale al marzo-aprile 1948. Sul finire di quest’anno si fa avanti una vecchia amicizia di Antonino Cucinella, un certo Salvatore Milazzo, che presta la sua opera per trasferire la banda di “Cacaova” a Tunisi, con la sua motobarca Rosita. Il Milazzo è un personaggio dedito al traffico di generi di contrabbando, tra cui il tabacco, ed è un latitante che ha al suo attivo un mandato di cattura, emesso dal giudice istruttore di Trapani il 27 luglio del ‘48, per tentata estorsione ed altro. Ma stando alle dichiarazioni dell’8 maggio ‘51 del Mannino, poi contraddette davanti alla seconda Corte di Appello di  Roma, sarebbe esistito un “accordo collettivo” di espatriare preso assieme a Giuliano (nota: Cfr: Città Giudiziaria di piazzale Clodio, Roma, II Corte di Appello, Atti della Corte di Assise di Viterbo (CAV), Verbale di continuazione di dibattimento, interrogatorio di Mannino Frank, seduta dell’8 maggio 1951, cartella 4, vol V, n. 2, f. 181).

C’è da aggiungere che dal Rapporto inviato dall’agente Henry B. Ingargiola (Cic, sezione di Napoli, zona 6, Ufficio di Bari) all’Allied forces headquarters, al comando del Cic e al Pbs. (in Tna/Pro, Wo 204/12619, 28 gennaio 1946), risulta che gli uomini della banda Giuliano potevano trovare ampio asilo a Tunisi in quanto qui esisteva un forte movimento separatista. “A Tunisi  – leggiamo – opera un’organizzazione composta da siciliani e da arabi che sostengono il movimento separatista in Sicilia. Grazie agli sforzi di questo gruppo, sono stati inviati nell’isola denaro e armi. I rifornimenti sono caricati a bordo di alcune navi a Kelibia (Capo Bon) e trasportati a Granitola (provincia di Trapani), dove vengono distribuiti ai combattenti”.

Una fonte di Partinico mi ha in ultimo riferito, qualche settimana fa, di avere appreso dal cassiere della banda Vito Mazzola, negli anni ’50, il seguente fatto: Giuliano si imbarcò i primissimi giorni di luglio del 1950, nottetempo, nel tratto di costa tra Selinunte e Portopalo, per raggiungere, poche ore dopo, la costa tunisina.

6)    Sul  settimanale “Tempo” del luglio 1954, pp. 34-36, articolo di Umberto De Franciscis, compare una foto a mezza pagina che ritrae il prof. Ideale Del Carpio, dell’Istituto di Medicina legale dell’Università di Palermo, dinanzi al cadavere del presunto Salvatore Giuliano. La didascalica è eloquente: “Del Carpio accanto al corpo di Giuliano durante la seconda autopsia”.  Qualche riflessione è d’obbligo: che bisogno c’era di eseguire una seconda autopsia? Perchè non si trovano i verbali delle due autopsie?

Per questi motivi ci è parso doveroso segnalare alla magistratura un insieme di elementi indiziari che il solo sospetto che potessero essere utili a una prova, non poteva esimerci dal dovere di parlare. Perchè ci pare  un fatto molto grave che un criminale con 411 fascicoli aperti sul suo conto per stragi, assassini, sequestri di persona, detenzione di armi da guerra e quant’altro, possa essere ancora vivo o che possa avere trascorso, con complicità istituzionali, gran parte della sua vita impunemente e in barba alle sue stesse vittime che ancora a oggi reclamano e gridano giustizia. Per lo Stato, infatti, i delitti di cui si rese responsabile Giuliano, non hanno alcun mandante (pubblicato su ‘Narcomafie’, sett. 2010).


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