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Per sommi capi: quando un suo film è piaciuto in maniera più o meno unanime (vedi Le onde del destino, 1996), io mi sono trovato parecchio in disaccordo, quando invece ha realizzato degli aut-aut su pellicola sono passato autocoscienziosamente dalla parte dei buoni, o dei cattivi, dipende sempre da dove si guarda (vedi Antichrist, 2009).
Neanche a dirlo Melancholia (2011) ha infervorato positivamente il pubblico che affolla forum e blog vari, ossia quella che si presenta come la critica meno dotta ma più schietta, mentre a scrive è parsa come da copione una delle già conosciute masturbazioni filmiche del danese, opera bella, senz’altro, nell’accezione estetica del termine, ma coesiste (/persiste) con questa smaccata superiorità visiva una sorta di vacuità, di sfocatura, di aridità argomentativa; non tanto per poco spessore tematico, piuttosto per la vastità insita nell’intento: la fine del mondo comporta la fine di tutte quelle cose che fanno del mondo il mondo, e nel passaggio [1] della riduzione in scala (l’umanità, e quindi – anche – il mondo, miniaturizzata all’interno delle sorelle antitetiche) la pellicola si arena letteralmente, e pragmaticamente: annoia, soffocata dalla prolissità della prima parte che più che verbale definirei “registica” (l’insistenza sul metodo), uccisa dalla seconda che nonostante punti, finalmente, sull’accumulo tensiogeno, in fondo lo scheletro fantascientifico lo si deve rimpolpare, fa sì che tutto confluisca nell’immaginario predittivo.
Passi l’imponente prologo che avrà migliaia e migliaia di visualizzazioni su Youtube ma che risulta un amplificato riciclo dell’incipit rallentato di Antichrist, cambia nell’immissione del colore e, ovviamente, del materiale ripreso, non cambia l’emissione di musica classica (Wagner) a fare da sottofondo, e soprattutto rimane immutata la plasticità conferita ai corpi in movimento, passino dunque questi minuti che si sedimenteranno nella memoria cinefila, ciò che invece non vi starà a lungo, almeno nella mia di memoria, è la bipartizione del narrato, soprattutto il segmento della Dunst che possiede elementi di debolezza.
Intanto la panoramica umana all’interno della festa non trova nessunissima protesi nella seconda parte: perché la riottosità della Rampling? Il dongiovannismo del padre? E il capo d’azienda con l’inutile comparsata del ragazzetto messo lì giusto per istituire ufficialmente l’oscillazione planetario-umorale della protagonista? Ecco, se tutto quello che circonda Justine non è ben impaginato, la sua stessa figura fatica a trovare consensi empatici in chi la guarda, se il suo stato bordeline è dovuto all’avvicinarsi di Melancholia, o se lei stessa può essere metaforicamente vista come quella fetta d’umanità depressa di cui Lars fa parte, non pare avere incisiva rilevanza.
Il tutto è poi immortalato attraverso una linea visiva prossima alla nausea che urlando la propria cifra distintiva trova soltanto il proprio riflesso nello specchio, cosa già successa agli albori nella trilogia europea ed anche in altre opere disseminate nel curriculum trieriano che sembrano preoccuparsi più di come raccontare piuttosto di che raccontare.
La parte della Gainsbourg ha un appeal differente, e sebbene risulti troppo indipendente rispetto a quella che l’ha preceduta, ha almeno la piccola qualità di farsi seguire, semplicemente perché la strada intrapresa sembra poter aver una conclusione degna del nome, ma la speranza di una rivelazione, di un ribaltamento percettivo, viene offuscata dalla catechizzazione di Trier che incanala i significati all’interno delle due sorelle, una cocciuta ad aggrapparsi alla vita, l’altra rassegnata nel perderla. Io, in tutta onestà, non ho visto nient’altro, se non la didascalica contrapposizione fra le caratteristiche di Claire (mora, madre, “borghesizzata”) e quelle di Justine (bionda, nemmeno moglie, ribelle).
Radiato dal Festival di Cannes a causa delle sue simpatie poco raccomandabili, Lars von Trier è da sempre un malizioso accentratore d’attenzione, e pur avendo un fiuto registico fuori dal comune, è parso molte volte che il personale narcisismo non abbia dato voce a quell’amore artistico verso il cinema che egli possiede, alternando così opere stratosferiche a capitomboli prossimi alla provocazione, ma Melancholia non sembra appartenere a nessuno dei due ranghi, solo un’opera monca, inerme, anestetizzata dalla sua estetica e desertizzata dall’impalpabile emotività.
Se questo è un film disperato, la disperazione è diventata un surrogato della banalità.
Amaramente, una delusione.
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[1] C’è un ulteriore passaggio.
Dal pessimismo intimo e personale di Antichrist si passa a quello su vasta scala di Melancholia.
Il salto è mortale e non ha felice atterraggio, se il film precedente grondava sofferenza da ogni fotogramma, qui il guscio patinato non lascia passare niente.
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