Stavolta nessun argomento serio e impegnato. Parleremo di cose futili, o almeno ordinarie, che ogni tanto ce n'è bisogno, di svaccare.
Henné.
O "henna", come dicono laggiù.
Tadàààn!
Le donne libiche ce l'hanno fatta: dopo insistenti proposte di sottopormi a questa ennesima infinita tortura, ho ceduto. Mi sono fatta dipingere le mani con l'Henné!
Solo le mani eh, ché la sola idea di scoprirmi i piedi e le gambe con quel freddo casalingo, mi faceva accapponare la pelle (e tralasciamo i problemi di peli superflui che non interessano a nessuno).
Il problema vero è che per realizzare questi fantastici disegni ci sono volute tre ore buone, anche con l'ausilio di mascherine di nastro adesivo che si vendono apposta in grandi fogli preforati, che laggiù vanno alla grande (eh, ne saprò qualcosa: ho un cognato che ha un emporio dove vende di tutt'un po', inclusi i famigerati "stampini" per henné).
Questa dell'henné per loro è proprio un'istituzione, una pratica quasi sacra! Oltre alle mascherine con i motivi prestampati un altro oggetto che va alla grande sono dei piatti di ceramica variamente decorati al cui interno si lavora la polvere di henné ad impasto, con acqua e succo di limone se ben ricordo, mentre tutto intorno si accendono delle candele fissate su appositi supporti, delle quali non individuo la funzione se non nella necessità di creare atmosfera. Me le immagino tutte lì, raccolte in cerchio, a dipingersi a vicenda... insomma un'attività collettiva e di gran valore ricreativo, che spesso coincide con i giorni di festa, o meglio, con le vigilie, perché si possano sfoggiare gambe e braccia pittate a dovere durante la festività.
Il fatto è che serbavo memoria della mia ultima seduta di henné già dalla scorsa venuta in terra libica, e quella volta, reduci da un viaggio lungo e faticoso, stanche e assonnate vi ci sottoponemmo in due, ignare del fatto che saremmo rimaste fino ad ora molto tarda della notte a farci inguainare e ricoprire le braccia di una specie di fanghiglia puteolente, l'impasto di henné, per poi andarci a coricare fasciate come mummie egizie per permettere all'impiastro di agire l'intera notte.
Ovviamente al mattino mi ritrovai viso e capelli pieni di grumi di fanghiglia secca e macchie nere e rossastre, poichè mi ero selvaggiamente stropicciata la faccia con le mani durante il sonno e le mie bende pendevano misere e inerti semisrotolate dai miei polsi.
Insomma, memore del tragico trascorso, non so com'è che ho accettato di prestarmi di nuovo a questo supplizio, e lo so bene che chi bella vuol apparire... ma devo dire che stavolta è stata meno tragica.
Sì lo so che a vederle così 'ste macchie nere sulla pelle fanno un po' impressione, che ti pare di avere la scabbia o che so io. L'han fatta pure a me la prima volta che mi son vista tutta maculata e non riuscivo a capire quale fosse la bellezza di questa usanza di dipingersi mani e braccia, spendendovi tanto e tanto tempo e fatica, che io già dopo il primo dito mi ero rotta le palle, e avrei interrotto volentieri.
Il punto è che loro lì non si pongono mai in conflitto con l'idea del tempo. Il tempo che si impiega a fare una data cosa è quello, e quello rimane, tutto il resto può aspettare, per quanto futile possa apparire lo scopo ultimo di tanto impegno.
L'henné comunque, ragazze, se vi capita, almeno una volta nella vita, va fatto. Mai come allora potreste veramente provare come ci si sente in una pelle diversa dalla vostra. E' strano ma ci si abitua.
Pensate che dopo il mio rientro in patria ho coinvolto la mia amica di sempre in un folle pomeriggio di henné, durante il quale lei ha offerto alla causa le sole mani, mentre io ho soddisfatto la mia vanità femminile tatuandomi addirittura il polpaccio e il collo delpiede. Assuefazione da henné? I miei sforzi per integrarmi nella cultura libica hanno fruttato questi sinistri risultati? Il contatto prolungato con le donne libiche ha stuzzicato quel senso sopito di femminilità vanesia che si celava in me? Chissà.
Inverno.
Esempio di cielo invernale in Libia.
Esempio di calzatura di bambina importata dalla fredda Europa
Esempio di calzatura di bambino autoctono della bollente Libia.
Da quanto constatato soggiornandovi tra gennaio e febbraio posso dire che l'inverno in Libia è fatto di giornate fredde fredde e giornate tiepide. Non fa mai veramente quel freddo esagerato dei nostri peggiori gennaio, grigi e uniformi, infiniti e cupi, di nuvole perenni e temperature rigide.Diciamo che il freddo invernale si avverte più perché le persone non lo sanno affrontare, pare quasi che l'inverno li colga impreparati, di sorpresa, senza possibilità di difendersi dal calo delle temperature altrimenti vivibilissime da marzo a novembre.
Ma forse, invece, ero solo io a non essere pronta, che illudendomi di andare a stare al sud, ovvero, nella mia testa, al caldo, sono partita assai poco equipaggiata e assai poco consapevole del fatto che anche lì fosse inverno.
Per esempio:
Oggi fa mediamente freddo ma a tratti esce il sole e forse sto iniziando ad acclimatarmi visto che ho smesso di indossare i pantaloni felpati sotto la gonna e i calzini di lana sopra quelli di cotone. Infine ho preso a girare in maniche di maglietta visto che con gran lungimiranza ho portato un solo maglione a maniche lunghe, poi solo maglioni leggeri a mezze maniche, reputandoli più adatti allo stile e al clima libici.Loro invece lo sanno bene, come dimostra il fatto che dispongano di un armamentario di coperte di lana praticamente impenetrabili, sotto le quali non soffri le rigide temperature notturne della casa. Il problema vero è sgusciarne fuori al mattino, soprattutto se capita una di quelle (sia pur rare) giornate di cielo coperto, ché non esce il sole a scaldare l'aria, con i suoi raggi diretti.
E' che loro sono anche avvezzi a questo tipo di freddo, e in fondo, attendono che passi con pazienza, svernando in casa, imbottendosi in diversi strati di vesti, infilando calzemaglia di lana sotto ai pantaloni ai bambini, che oltretutto girano tranquillamente scalzi anche nei giorni peggiori, accendendo un braciere attorno al quale raccogliersi a scaldarsi le mani congelate, attendendo alle mille incombenze della casa, che non permettono al tuo corpo di intorpidirsi in una stasi glaciale, ché tanto la primavera arriva in fretta.
Noi invece, nelle nostre abitazioni riscaldate a metano, non facciamo veramente i conti con il rigore invernale che quando usciamo, così diamo per scontato che il cappotto si debba indossare soltanto quando si esce di casa, mentre per me è stato l'esatto contrario, uscendo me ne liberavo, perchè il sole picchia.
Il bello è che la luce non manca mai, il cielo è di un azzurro impeccabile, screziato di nuvole bianche e colorate che si disfano in fretta, per lasciare il posto a macchie di sole che intorno alle ore centrali del giorno è capace di darti alla testa pure a gennaio.
Può piovere, a giorni, una pioggerella sottile e intermittente, soprattutto durante le ore notturne, che al mattino fa presto ad asciugare, ma basta a raffreddare la terra e l'aria, con sbalzi termici sorprendenti, come accade quando ti sposti dalle aree di luce a quelle d'ombra.
Il vento dal mare porta umidità e foschia, quello dall'entroterra polvere e cielo terso.
Le guide turistiche indicano i mesi di mezza stagione come i più indicati per effettuare un viaggio in questo Paese, e forse me lo spiego con l'imprevedibile andamento di questo inverno bislacco.
Sarà che ognuno è abituato al suo clima di origine, ma il fascino di questi Paesi caldi io continuo a vederlo più nelle loro bollenti stagioni calde che in questi luminosissimi, tersi e cinguettanti di stormi emigrati inverni di luce dorata e fioriture anticipate, ché non mi ci raccapezzo più nulla, e l'ordine naturale del tempo mi sembra tutto rimescolato, e fai presto a sudare sotto il tuo velo, e fai presto a sentirti addosso il sudore ghiacciato dalle raffiche impietose di un vento implacabile, sa sud o da nord, fa poca differenza.
Lingua.
Inshallà! Rahamukhallà! Mashahallà! Alhamdulillà!
Potreste cavarvela senza problemi disponendo di un modesto vocabolario di esclamazioni inclusive del nome di Dio nella maggior parte delle situazioni sociali.
Ma... alla lunga la magagna sarebbe scoperta. Come è successo a me in occasione di una visita in casa di un funzionario della città, che doveva stilarci alcuni documenti.
Lui è rimasto convinto per una buona mezz'ora che io parlassi correntemente arabo, tanto che mi ha invitato a passare nell'altra ala della casa, per far visita alla di lui consorte. Peccato che una volta lì, io mi sia ritrovata nell'assurda situazione di dover sostenere una qualche conversazione laddove non capivo letteralmente un'acca (perché in arabo ce ne sono almeno tre tipi, di "H", e a me sembrano tutte uguali).
Insomma, le mie conoscenze della lingua sono praticamente inesistenti, se si esclude un discreto repertorio di sostantivi abbastanza futili, se non sei in grado di legarli tra loro in una sintassi sensata e di qualche verbo basilare che però non riesco ancora a coniugare a dovere, perchè non sono ancora riuscita ad isolare una sola regola gammaticale da poter applicare.
Davvero complicata nella fonetica, nel lessico quanto mai articolato e ricco di sinonimi ed espressioni colorite, immaginifiche, difficilmente traducibili (come: ti tengo nei miei occhi, per dire che ho intenzione di prendermi cura di te), sfuggente perché articolata in un profluvio di suoni consonantici, aspirati o sputati che si rincorrono spesso accavallandosi, costipando le povere vocali, o direttamente omettendole del tutto, ché in fondo non sono così importanti nell'economia della lingua araba...
Eppure il dialetto libico per un italiano offre per fortuna alcuni appigli che consentono almeno un minimo di adagiarsi in alcune somiglianze, nell'eredità di alcuni termini, per lo più tecnici, legati alla meccanica moderna, o alla cucina (come l'immancabile "macaruna" quasi ad ogni pasto).
Per come son fatta io, che raramente mi butto in una conversazione se non mi sento sicura della mia padronanza dell'idioma, a imparare la lingua semplicemente parlandola e ascoltandola, non mi ci sarebbero bastati tre anni. Ma ho anche avuto modo di constatare che il mio approccio "scolastico" lì non mi avrebbe giovato: l'unica volta in cui ho provato a porgere a una mia interlocutrice (una cugina in visita che mi chiedeva non so che, ripetendo con insistenza sempre le stesse incomprensibili parole, come se la reiterazione continua potesse aiutarmi nella comprensione) il mio utilissimo dizionario arabo-italiano, quella me lo ha restituito dopo esserselo rigirato per qualche minuto tra le mani, con un grande punto interrogativo stampato in viso, chiedendosi probabilmente cosa accidenti pensavo che ci dovesse fare con quel libro che le porgevo. Però almeno mi tolsi dall'imbarazzo di risponderle, perché non mi rivolse più la parola.
Nota per me: potevo anche evitare di portarmi il dizionario di arabo. Mi sarei risparmiata il peso e l'ingombro nel bagaglio.
Maharma.
Non è la tipica donna libica.
Ecco qui, gente: la trasformazione è quasi compiuta del tutto.Mia mamma quando ha visto le mie foto in questa mise tra un poco non si infartava.
"Figlia mia, così mascherata, giravi?" E' stato il suo commento ripetuto e accorato.
Per la verità adeguarmi a questa moda non è stato l'aspetto più difficile dello stare lì, è stato quasi naturale, visto che il girare senza mi faceva sentire un poco sotto i riflettori.
Ma comunque la trasformazione non è ancora completa: in ultimo quelle assatanate (sempre loro: le donne libiche mie ospiti) sono riuscite persino a vestirmi di tutto punto in costume tradizionale della festa, a truccarmi gli occhi come solo il più degno dei trans sarebbe in grado di fare, a lisciarmi la cotonata chioma a colpi di spazzola e fon, a caricarmi infine di pendagli d'oro, anelli e bracciali, che mi pareva d'essere un guerriero cinese infilato nella sua corazza, invece ero solo una sposa libica.
Per queste complicate operazioni di vestizione c'è voluto l'interminabile tempo di due ore, ma a me, che a mala pena dedico alla mia toeletta mezz'ora del mio tempo giornaliero, son sembrate diciotto.
Fortunatamente non conservo foto di questo esperimento raccapricciante, poiché tutto ciò accadde la sera prima della nostra partenza, e dimenticai (diciamo dimenticai) di passare le foto (che non mancarono) nel pc. Ma se fate i bravi magari un giorno con una buona dose di faccia da culo ve la faccio pure vedere, la mise da sposa libica, chissà.
Ah, diete che non ne morrete, se pure non la pubblico? E vabbé, allora come non detto.
Per ora accontentatevi di questo mio eccellente primissimo piano con maharma.
Ho detto "maharma"! Sarebbe l'affare che si attorcigliano intorno alla testa.
No, qui non si chiama chador, quello è un termine che usano solamente i paesi arabi di lingua francese.
E con mia grandissima immensa soddisfazione, alla fine della mia permanenza avevo forse imparato la raffinata arte dell'intorcinamento, come si può facilmente evincere dalla foto.
Lasciamo stare che si tratta di una sciarpa indiana ricevuta come regalo di Natale da mia cugina: era l'unico drappo con cui riuscivo a vedermi bardata senza sentirmi mia nonna, o qualsivoglia altra castigata matrona di due secoli fa, e la cosa mi deprimeva un poco. Curioso come la non coincidenza dell'immagine che abbiamo di noi con il nostro aspetto effettivo incida negativamente sul nostro umore.
Con questo invece facevo un poco contadina lituana, o profuga armena, fate voi, e per quanto il rosso acceso non sia usato troppo dalle donne libiche, o forse proprio per questo, mi ci sentivo più a mio agio.
Che poi non si dica che in questo blog non si parla anche di moda!