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Mentre cio’ che già era crollato crollava ancora, io spendevo…

Creato il 29 settembre 2013 da Unarosaverde

Mentre cio’ che già era crollato crolla ancora, mentre le macerie si accumulano sulle macerie in questa pantomima di Paese, io mi sono regalata, alla cifra ben spesa di una sessantina di euro, un sabato pieno di sensazioni e, a giudicare dalla folla che ha invaso gli stessi luoghi che ho frequentato, molti altri hanno fatto come me, prima che l’Imu seconda rata arrivi, che l’Iva si impenni, che la Tares ci schiacci, che colui che non se ne vuole proprio andare prolunghi l’agonia di uno Stato che tra un po’, se andiamo avanti così, verrà commissariato come un’azienda in bancarotta.

E’ innegabile che ci sia crisi, è verissimo che ci sono persone che a stento, o affatto, arrivano alla fine del mese, ma chi ancora ha la possibilità di spendere cifre non enormi sembra non abbia smesso di cercare stimoli culturali, che si tratti di arte, musica o cucina. Forse sono meccanismi di compensazione. “Questa crisi ci sta rieducando”, ho sentito dire sabato, ad un certo punto della giornata. Si stava discutendo di abitudini alimentari e del fatto che la maggior parte delle persone che acquistano le insalate pronte e già lavate sembra siano i pensionati, categoria a rischio povertà, e che, facendo i conti della serva, questi prodotti hanno un costo altissimo. Non vi sembrano contraddizioni incredibili, quelle legate al costo del tempo risparmiato?

In ogni caso, ieri me la sono goduta, alla faccia della crisi, da mattina a sera. Ho iniziato con una colazione (cappuccino e brioche, 2,5 euro)  da Roberto, pluripremiato maestro pasticcere, di Erbusco. Casomai passaste da quelle parti, provatelo: la brioche era perfetta, in sapore, crema, cottura.

Poi ho partecipato ad un evento di quelli promossi dal Festival Franciacorta, programmato in questo fine settimana appena trascorso, e, per la precisione, ho scelto un incontro di degustazione, a 10 euro, in cui il giornalista Davide Paolini, il Gastronauta, insieme ad altri relatori, discuteva le virtù di una buona pizza napoletana, le tipologie di lievito, i segreti per un rendere un piatto semplice perfetto, presso la cantina Contadi Castaldi. Mi è sembrato di capire che il succo del discorso, alla fine, fosse che ci si è resi conto che fare bene le cose semplici e buone, ponendo attenzione agli ingredienti, dando loro il tempo giusto per fondersi, scegliendo come alimentarsi, stia diventando il nuovo imperativo, contro la sperimentazione eccessiva degli anni scorsi, i piatti studiati, l’estetica spinta, la ricerca del particolare con cibi esotici, inusitati. E che non sia semplice eccellere con le cose semplici. I miei amici  trasferitisi alle Seychelles per sopravvivere lo sanno bene, loro che della pizza hanno fatto un’arte.

Mentre il dibattito si allungava verso le prime ore del pomeriggio, i bicchieri sulle tavolate si riempivano di Brut e Rosè. Io non bevo abitualmente. Preferisco il vino bianco e i passiti, non mi piacciono gli spumanti e i vini frizzanti. I due di cui sopra avevano un fine perlage, erano freschi, e andavano giù che era un piacere. I bicchieri, che venivano svuotati durante la degustazione di tre ottime pizze diverse, preparate secondo le indicazioni di quanto discusso nell’incontro, venivano anche subito riempiti di nuovo dai gentilissimi operatori della Cantina. Ne ho contati sei (tre e tre, per non fare torto ma il Rosè mi è piaciuto di più e una bottiglia  adesso abita da me) prima di dire a me stessa che avevo oltrepassato il mio limite. Immersa nei fumi di una sbornia chic (capitemi che sbronzarsi con vini della Franciacorta regala un certo nonsoche di elegante), ho visitato per la prima volta una grande cantina e appreso i rudimenti dell’arte della produzione dello champagne. Mio nonno paterno aveva un vigneto, piccolo ma sufficiente ad un giorno intero di vendemmia per figli e nipotini: ricordo le gerle cariche, le mani e la tuta appiccicose, le corse tra i filari, il pranzo tagliato sulle assi del carretto di legno – pane, salumi, formaggi, crostate -, ricordo le donne intorno al tavolaccio teso tra due tini, a pulire a mano gli acini rovinati perchè non inquinassero il vino, ricordo gli uomini gettare le ceste nel torchio e spremere il mosto, ricordo il sapore inebriante del rosso e le indigestioni di uva nera, i grappoli migliori scelti dalla nonna, una cassetta per ognuno di quelli che avevano partecipato alla vendemmia. E poi le suppliche, per poter salire sul carretto insieme ai tini, ed essere trascinati per il paese dal trattore, fino a casa. Noi, in valle, facevamo le cose in minuscolo, il vino era povero, pieno, da pasto. In Franciacorta, a bordo lago, ormai tutto il territorio è dedicato alla coltivazione a vigna e le numerose cantine della zona producono bottiglie di altissimo livello qualitativo. L’odore del legno impregnato di vino però era lo stesso, misterioso, evocante buio e bosco, sughero e terra.

Sempre tra i fumi dell’alcool, mi sono resa conto con sgomento e rassegnazione che per la prima volta in mesi ho ascoltato parlare per due ore  un gruppo di uomini senza sentir da loro pronunciare una parolaccia, senza che si fermassero in mezzo alla frase perchè non riuscivano a coniugare il verbo o si erano persi per strada il soggetto, senza che le coordinate si annodassero con le subordinate per terminare in dialetto, unico mezzo per uscire dalla mischia verbale, senza che le voci salissero di tono o si sovrapponessero, le une alle altre, durante il dibattito. Sono veramente messa male.

Dopo un’oretta e mezza di sonno alcolico, necessario per asciugare definitivamente la sbornia, ho imboccato l’autostrada, direzione Cremona e sono arrivata in centro all’imbrunire. I bar della città erano invasi da un popolo chiassoso di cultori dell’aperitivo, rustico o raffinato; la piazza della Cattedrale era illuminata e popolata da persone che senza fretta, a piedi o in bicicletta, si attardavano prima della cena. Le botteghe dei liutai e molti foderi di violino trasportati per le strade dai proprietari conferivano il tocco finale di colore all’insieme. Un’immagine di quattro anni fa mi è tornata alla mente: mia madre, mio padre ed io, nella piazza: l’ultima vacanza insieme,  era appunto iniziata in questa città, per me mai visitata – come sempre pare succeda con ciò che ci sta più vicino – e  poi era proseguita per Lucca, per Pisa, fino a Villa Adriana, a Tivoli, per concludersi ancora una volta sul lungomare marchigiano. Il dolore, sempre presente, sta assumendo pian piano, con il passare dei mesi, la forma di una nostalgia acuta ma più sopportabile e dal fondo della memoria emergono sempre più spesso ricordi belli, frasi scherzose, insegnamenti. E se il senso di mancanza non si affievolisce e lo spazio vuoto non si riempie, pare che si rafforzi la mia voglia di vivere e di vivere bene, di concedere a quanto mi permette di imparare, di godere o di crescere di avere tutto lo spazio necessario.

Il tempo per un tagliere di salumi della Bassa, accompagnato da focaccia calda (10 euro), ed ecco l’evento culmine della giornata, un concerto (30 euro) nell’auditorium appena inaugurato nel nuovo Museo del Violino. Dicono abbia la miglior acustica del mondo. Non lo saprei dire. Mentre la mia compagna di baldorie, che ha l’udito di un pipistrello, ha immediatamente captato il ronzio dei reostati dell’illuminazione, io sono sprofondata nella beatitudine della musica classica suonata bene. Renaud Capuçon con un Guarnieri del Gesù e l’accompagnamento appassionato di Jerome Ducros, ha suonato Mozart, la sonata KV 301 che mi è piaciuta, Beethoven, la sonata 5 op. 24 Primavera, che mi ha incantato, e la sonata 10 di Richard Strauss che invece non ho capito. Come con l’arte, così con la musica ho un rifiuto per tutto ciò di cui faccio fatica a capire il filo tematico, il messaggio, l’unità. L’auditorium, a palco centrale, è un tripudio di legno chiaro e linee morbide.

La notte, fuori, era ancora tiepida e abitata, la pianura a coltivo silenziosa, la strada verso casa deserta.


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