Sta cambiando il tempo, me lo sento nelle ossa. Si risvegliano vecchie ferite di guerra, frecce di indiani alla spalla rimediate nel cortile dell’oratorio, e sfregi di pugnalate alla schiena da mani ignote (il solito fuoco amico di, appunto, amici, quando non parenti). La caviglia duole al solo ricordo della tendinite del liceo, mentre una stretta ai fianchi ripercorre la notte di un travaglio finito male e il cuore si avvita intorno a vecchie aritmie di natura che definire psicosomatica è stato comodo quanto sbrigativo.
Dovessi dire dove mi fa male, risponderei dappertutto. Mi fanno male i distacchi, anche i più lontani; quelli, anzi, ancora di più. Certi hanno richiesto il trambusto di porte sbattute con tale violenza che i lampadari oscillano ancora; altri si sono consumati nell’evanescenza della viltà, come topi o insetti che spariscono nelle fessure di una vecchia casa abbandonata. E mi sento io, quella vecchia casa abbandonata dopo un trasloco penato, come quello dell’estate che finisce, o più che finire avvizzisce, scolora, perde nerbo, da stendardo ruggente nel sole si fa straccio che dondola mezzo morto su un filo, ingrigito di polvere e acqua sporca.
Qualcosa nel mio metabolismo ha bisogno di calore, quel calore che altri definiscono canicola e ne odiano la spossatezza. D’estate me ne ricarico come una lucertola, o forse come una batteria solare. Poi eccolo il settembre, che mi spegne. Quest’anno, poi, senza lasciarmi nemmeno un po’ di abbronzatura per esorcizzare tutto il grigiore che mi aspetta.
Settembre è il giro di boa, quello vero, quello che avverto sotto pelle. È ora che finisce, se non un anno, un ciclo, e il prossimo lo vedo come una lunga attesa di nuova estate, con tanta luce, il sole pieno, i colori decisi che tengono a bada le ombre. Ci saranno sere lunghe di nebbia o di riflessi sull’asfalto, spiate dietro i vetri con le mani sul calorifero; e dietro gli alberi spogli sarà molto più difficile immaginare un mare, una spiaggia con gli ombrelloni e una risacca vigorosa che ride mentre le vado incontro.
Quest’anno è andata così. L’anno prossimo farò meglio. Adesso mi preparo a combattere la mia resistenza contro il mio nemico fisiologico, il freddo. Chiamiamola meteoropatia.
O nostalgia.
O malinconia.
Oppure solo vecchia voglia di andar via.
la foto Mademoiselle Anita è di Robert Doisneau (1951)