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Mettersi il Colosseo sotto le scarpe

Creato il 01 agosto 2013 da Albertocapece

l43-diego-della-valle-120111191119_mediumAnna Lombroso per il Simplicissimus

Facciamo finta che sia semplicemente successo. Facciamo finta che non ci sia stato un intento perverso nel lascia deteriorare, sgretolandosi rovinosamente, il monumento simbolo di Roma. Facciamo finta che dietro all’indifferenza e la noncuranza non si nascondesse il proposito di dar luogo a un’emergenza monumentale da fronteggiare affidando lo “spartitraffico”, come lo definiva amaramente Cederna, in una specie di lungo comodato  alla carità pelosa di uno sponsor. Facciamo finta che non si potesse fare altrimenti, anche se sarebbe bastato un aumento di 30 cent del biglietto d’ingresso con l’indicazione “pro-restauro”, per incassare in quindici anni i 25 milioni della “necessaria”, irrinunciabile sponsorizzazione.

Trionfalmente, unanimemente tutti condividono il soddisfatto compiacimento:  il Colosseo si salverà, grazie a un illuminato mecenate, vincitore di una gara della quale – sarò io diventata una schiappa nella ricerca online? – non si riesce a trovare traccia recente, se l’ultima esultante informazione di servizio del MIBAC risale al 2011, al dicastero di Galan che annunciava pomposo  che il progetto di restauro del Colosseo entrava nella fase esecutiva, che i progetti relativi alle cancellate, al restauro dei prospetti e alla realizzazione di un rutilante Centro Servizi erano stati perfezionati e gli appalti sarebbero stati avviati, ai sensi del nuovo regolamento per i lavori pubblici, a partire da fine luglio 2011.

Sono così sollevati di essersi tolta la gatta da pelare, una di quelle randagie  e affamate del Colosseo appunto, che trascurano di aver concesso all’elegante ciabattino tricolore  un’esclusiva per 20 anni, così che l’Anfiteatro Flavio e la sua immagine saranno  roba sua, un suo monopolio unico che esonera delle  competenze il Ministero dei Beni Culturali, comprese quella sui controlli e sulla verifica dell’efficacia degli interventi.

L’accordo stipulato nel 2010, dall’allora Commissario straordinario all’area archeologica di Roma, l’architetto Roberto Cecchi, e da Diego Della Valle,  prevede l’impegno da parte della società dei chiodini sulla tomaia,  di pagare i lavori di restauro del Colosseo per complessivi 25 milioni di euro e in cambio riserva alla Tod’s il diritto esclusivo sull’utilizzazione commerciale dell’immagine del Colosseo,  permettendole  di realizzare un  centro servizi/emporio nell’area archeologica più vincolata del mondo. L’estroso mecenate  può vantare anche molti altri diritti correlati, compreso quello di apporre il marchio Tod’s sui cantieri del Colosseo e sui biglietti acquistati dai visitatori.

Nelle more di un’intesa da 25 milioni (qualsiasi contabile di un ufficio marketing le attribuirebbe  un valore superiore a 200 milioni di euro considerando l’esclusività concessa e la durata, con un piano di comunicazione e di commercializzazione spendibile in tutto il mondo) si prevede  che i “diritti concessi all’Associazione e allo Sponsor sono concessi senza limitazione territoriali e, pertanto sono esercitabili sia in Italia che all’estero”. E infatti ci aveva subito  provato la Volkswagen, per il lancio di un nuovo modello, favorito dal principale sponsor dello sponsor, quel Mario Resca, direttore generale del Mibac che ha sempre rivendicato la sua natura di manager, attento al brand e votato al business culturale, quello che può fare di ogni monumento un gadget e di ogni città d’arte un luna park.

Si facciamo finta che la situazione sia degenerata a loro insaputa, o che  l’allarme intermittente sullo stato di salute dell’anfiteatro sia stato esaltato ad arte, o altrettanto artatamente sottovalutato per anni, si, facciamo finta comunque che gli ultimi crolli smentiti dall’ex sindaco e “rimossi” pudicamente e frettolosamente  siano stati un indicatore per diagnosticare mali irreversibili, si conferma comunque che  il miglior restauro è quello che non si deve fare: quello che viene prevenuto dall’umilissima manutenzione ordinaria, al Colosseo come a Pompei, grazie a una cura quotidiana che non ha bisogno di paperoni  a caccia di visibilità. E per trovarne uno non occorre andare lontano: ad Ercolano da oltre dieci anni   la Fondazione Packard (David Woodley Packard, con la sua fondazione Packard Humanities Institute Ndr)   ha fatto mecenatismo puro, mettendo denari e  competenze al servizio dell’area archeologica senza fregiarsi del “marchio” e senza organizzare cene eleganti o presentazioni di fuoriserie. Il fatto che il Colosseo perda pezzi è, infatti, la diretta, fisiologica  conseguenza dei  tagli ai fondi e al personale che i governi di ogni colore hanno inferto per decenni alle soprintendenze, umiliando e svuotando  il sistema di tutela migliore del mondo, per perdersi nell’incanto infantile ma  profittevole del luna park degli  eventi, della Disneyland o della Las Vegas archeologiche.

Ci sarebbe un destino peggiore della galera per i nuovi e vecchi tycoon che fanno carità pelosa a spese nostre all’olgettina, a Lampedusa o al Colosseo. E per i nuovi mecenati  incaricati di svolgere un potere sostitutivo per coprire  il vergognoso stato di sistematica sottrazione di pubbliche risorse destinate alla tutela del nostro patrimonio culturale.  Peggio della galera sarebbero l’oscurità, il cono d’ombra, il silenzio, per quelli che riusciranno laddove non sono riusciti né barbari né barberini,   fare dell’icona più celebrata la provvidenziale gallina dalle uova d’oro, stampata sulle suole che pestano indifferenti la dignità del nostro patrimonio e della  nostra cittadinanza.


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