Qui di seguito potrete leggere i nomi di tutti i film vincitori del Festival (come da comunicato stampa), corredati dalle motivazioni della giuria e più in basso il discutibile parere personale della vostra figura retorica, che a un occhio da critica unisce tutto il cuore del pubblico.
Concorso lungometraggi: Vince Boven is het stil: "per i temi intrecciati narrati con un'onestà di arte cinematografica di vigorosa qualità. Per l'elevato livello recitativo degli interpreti, per la crudezza poetica, per la fotografia livida e carnale. Per la capacità più unica che rara di trasformare il silenzio tragico nelle relazioni umane in grande forza comunicativa attraverso lo schermo". Menzione speciale a Will You Still Love Me Tomorrow? di Arvin Chen.
Concorso documentari: Vince The Love Part of This: "per la straordinaria capacità di trasformare una storia normale e quotidiana in un viaggio emozionante dentro al quale lo spettatore viene portato per mano fino a sentirsene partecipe. I giurati sono rimasti molto colpiti dall'importanza, dall'attualità e dall'intensità di tutte le storie, i personaggi e i temi raccontati nei documentari in concorso. Si è soffermata quindi sulla capacità di trasformare questi temi in racconti cinematografici". Menzione speciale a Born this Way di Shaun Kadlec e Deb Tullmann.Concorso cortometraggi: Vince Bunny: "per aver raccontato quel che succede quando la gioventù lascia il campo alla vecchiaia e alla malattia, presentate entrambe con ruvida onestà e senza fare sconti. Bunny porta in una realtà possibile che tutti speriamo di vivere, in cui l'amore è solidale, presente e assoluto e che, per questi motivi, ci spaventa meno. È poi un segnale importantissimo di come il cinema omosessuale non abbia paura di affrontare anche il tabù della vecchiaia, mostrandosi sempre più sensibile e maturo nei confronti di tutte le sfaccettature della vita". Menzione speciale a The Men's Room di Jane Pickett "per come ha saputo esplorare una storia controversa e ambigua raccontandola con rara eleganza tecnica. Il bisogno, la paura, la ricerca di comprensione e la solitudine del protagonista vengono rappresentati con un'architettura filmica che scava nel profondo delle emozioni, tenendo lo spettatore col fiato sospeso fino all'ultima sequenza".
Queer Award: Vince Joven & Alocada "in cui lo sguardo sfrontato della protagonista trova spazio tra le pagine virtuali di un blog dove uno stile narrativo irriverente e dissacrante diventa strumento di una ribellione, anche autobiografica, alle costrizioni della vita quotidiana. La scelta di genere rimane sospesa, ma viene esplorata con passione e la sessualità viene vissuta in modo spontaneo, fisiologico e, soprattutto, libero".
Premi del pubblico:
Lungometraggi Alata di Michael Mayer (Israele/Usa, 2012). Documentari Paul Bowles: The Cage Door Is Always Open di Daniel Young (Svizzera/Marocco, 2012). Cortometraggi Holden di Juan Arcones e Roque Madrid (Spagna/Francia, 2012). IMPRESSIONI OSSIMORICHE
Sappiamo tutti per esperienza (diretta o indiretta) che spesso ai festival ci si trova davanti a film soporiferi, ermetici nel messaggio e nella messa in scena, con dialoghi scarni e inquadrature fisse, dove i titoli di coda vengono accolti dal pubblico con un unanime sospirone di sollievo.
Questo festival mi ha favorevolmente stupito perché, della ventina di proiezioni cui ho assistito, posso dire che si è trattato in maggioranza di film impegnati, interessanti, profondi, arricchenti, di grande atmosfera, con ottime prove degli autori e allo stesso tempo incalzanti, comunicativi e godibilissimi anche a livello di pubblico (ragion per cui mi auguro che almeno alcuni vengano presto acquistati, doppiati e portati negli stagnanti cinema italiani).
Ecco, il solo problema è che invece la giuria ha teso a privilegiare l’unico film in concorso che si inscrive perfettamente nella prima descrizione, quella del classico “film da festival”, con tanto di sospirone di sollievo finale incluso (io c’ero): Boven is het stil (Nanouk Leopold, Paesi Bassi/Germania 2013) è un film ambientato in un’isolata fattoria della campagna olandese (così evinco dal fatto che la lingua che si parla non è tedesco) in cui un uomo di mezza età gestisce i lavori della fattoria e si prende cura dell’anziano padre, infermo e riottoso, immobilizzato in un letto; ciò che viene mostrato è la routine della fattoria e del suo lavoro di “badante”. D’accordo il coraggio di mostrare il disfacimento del corpo senile del padre, con inquadrature insistite sul suo corpo, d’accordo veicolare la solitudine e l’isolamento; ma francamente non condivido il verdetto della giuria, perché se posso apprezzare le tematiche, sono convinta che ci siano stati altri film che sono riusciti a comunicarle con maggiore efficacia e senza cagionare sonno profondo nel pubblico. Un’opinione diversa mi porta a non condividere neanche la scelta del vincitore del Premio Queer, anche se stavolta ne capisco il senso: Joven y alocada (Marialy Rivas, Cile 2012) è un film di straripante modernità, protagonista un’adolescente che si ribella al fanatismo evangelico della famiglia – che la vorrebbe vergine al matrimonio – facendo sesso con uomini e donne indifferentemente e senza inibizioni, senza preconcetti né remore sentimentali e racconta tutto sul suo blog personale di Blogger, in cui ogni sua avventura sessuale coincide provocatoriamente con un versetto del Nuovo Testamento. Un film che attendevo con ansia e che mi ha deluso perché non era ciò che mi aspettavo: pensavo si trattasse di un romanzo di formazione, con prese di coscienza personali e sentimentali, anche sofferte. Ma l’atteggiamento qualunquista e perennemente sarcastico della finta santarellina Daniela me l’ha tenuto lontano dal cuore, pur con un plauso alle scelte registiche utilizzate per rendere la complessità del web, con i commentatori del blog mostrati nell’atto di lasciare i loro commenti ai suoi post. Condivido invece pienamente il premio del pubblico, assegnato all’intensissimo Alata (Michael Mayer, Israele/USA 2012): storia d’amore e spionaggio nella cornice dell’odio tra civiltà, quella tra il giovane palestinese Nimer, studente di psicologia che rischia la vita per frequentare i locali gay di Tel Aviv, e l’avvocato israeliano Roy. Un film forte, che ci racconta con inquadrature sghembe e uno spiazzante uso della videocamera a mano gli odi sotterranei tra questi due popoli e fa luce su una realtà in fondo ancora profondamente ignota agli occidentali, con un ritmo incalzante e una morale che non fa sconti a nessuno: la vita sul filo del rasoio degli omosessuali palestinesi, la cui esistenza è messa in pericolo dai famigliari retrogradi come dall’intelligence israeliano. Uno dei film che allineo anche sul mio podio personale. Un’altra scelta condivisa è la menzione speciale assegnata alla delicata commedia agrodolce Will You Still Love Me Tomorrow? (Arvin Chen, Taiwan 2013), che mi ha piacevolmente ricordato il film (anch’esso taiwanese) di Ang Lee Mangiare, bere, uomo, donna: anche qui assistiamo al girotondo delle relazioni di una famiglia, che vede due fratelli alle prese con decisioni topiche sulla strada per la maturità; la scapestrata Mandy esita a sposarsi con il remissivo fidanzato San-San e suo fratello Feng, affidabile e placido, riapre una parentesi omosessuale che pensava d’aver sepolto nel suo passato, dopo il matrimonio e la nascita del figlio. Una storia dai risvolti potenzialmente traumatici raccontata con un sorriso che ci riconcilia serenamente con la ciclicità della vita grazie al suo savoir faire tutto asiatico, in cui il superamento della situazione iniziale avviene nel momento in cui si accetta l’avvento di una nuova fase (grande tema che caratterizza tutta la produzione dell’immortale cineasta giapponese Ozu). Esauriti i commenti sui vincitori, vi propongo qualche riflessione tematica su alcuni degli altri film che ho avuto modo di vedere, divisi in base agli aspetti che mi hanno colpita. Il più impegnato: Any Day Now (Travis Fine, Usa 2012), storia emozionante basata su un fatto realmente accaduto, ambientata nel 1979, della relazione tra l’ avvocato di Las Vegas Paul e la drag queen Rudy e della loro battaglia legale per ottenere l’affidamento del sedicenne down Marco, abbandonato dalla madre tossicomane. Un capolavoro di comunicatività, di amore inteso nel suo senso più globale e compiuto, la visione di un mondo folle visto dagli occhi speranzosi di Marco, che ama le ciambelle e le storie a lieto fine, con un finale inaspettato e profondamente amaro. Il volto umano e vero del cinema indipendente.Il più struggente: Monster Pies (Lee Galea, Australia 2013), ovvero l’affinità elettiva di due ragazzi feriti dalla vita che si incontrano sugli (enormi) banchi di scuola di un liceo australiano e si innamorano, complice un compito a casa su Romeo e Giulietta. Una riflessione a tutto campo sull’interazione tra amore e dolore: il dolore per la perdita di un fratello, per la malattia di una madre, per l’incomunicabilità con un padre. Un dolore che non lascia scampo e che porta a un tragico finale di rinuncia alla lotta per la vita. Grandi spazi e poche persone, come si addice a un’ambientazione australiana, con una scelta azzeccatissima del cast: quante volte vi è capitato, guardando un film d’ambientazione liceale, di pensare “questi mezzi modelli quasi trentenni in che altra vita potrebbero passare per dei veri liceali?”; beh, in questo film non accade, i protagonisti sono dei credibilissimi adolescenti, dei ragazzi normali, di una bellezza acerba e di un talento estremamente espressivo.
Il più coraggioso: Aynehaye Rooberoo – Facing Mirrors (Negar Azarbayjani, Iran 2011) è la storia di una fuga, un road movie iraniano con protagonista un’aspirante transessuale woman to man, riportata con l’inganno dalla Germania a Teheran per sposare un cugino. Basta solo la descrizione a far comprendere la dirompenza di questo film, ma quel che mi ha stupito, oltre alle splendide interpretazioni e all’inquietante focus sulla gramissima vita delle donne in Iran è la rapidità, la struttura avvincente, che gli permette di superare l’etichetta di film indipendente per affacciarsi su una dimensione di globalità. Una grande amicizia nata per caso, quella tra la trans Eddie e la tassista abusiva Rana, che guida in un paese in cui le donne non possono farlo, e sbarca il lunario in attesa che suo marito sia rilasciato dalla galera. Uno dei film del filone “Mezzaluna rosa”, dedicato all’omosessualità in medio oriente.Il più introspettivo e commovente: la trama più particolare e introspettiva è di White Frog (Quentin Lee, Usa 2012), che comincia con Nick, un ragazzino affetto da Sindrome di Asperger cui muore il fratello maggiore e unico confidente. Il film è un viaggio attraverso il bigottismo e l’incredulità della comunità di origine asiatica in un paesino statunitense: Nick è come un pesce in una boccia e incanta lo spettatore il suo tentativo di comprendere tutto ciò che non sapeva del fratello, fino a raffrontarsi con la scoperta della di lui omosessualità, inaccettabile per la famiglia e per lo stesso Nick, che vive protetto e ingabbiato dalle sue ferree regole comportamentali. Un racconto di formazione che permetterà l’uscita di Nick dalle sue gabbie, anche grazie all’interazione con gli amici e l’ex fidanzato del fratello. La diversità in tutte le sue forme e l’amicizia come dialogo che trascende ogni barriera. Un film che adorerei vedere sugli schermi italiani.
Il documentario più sentito: si tratta del già citato reportage dell’associazione Quore, Vorrei, ma non posso, una lunga intervista a due famiglie arcobaleno (una di omosessuali maschi e una di lesbiche con un bimbo) inframezzata ai matrimoni simbolici che hanno avuto luogo nel corso dell’ultimo Pride. Con interviste a Paola Concia, a Don Gallo e incursioni nei raduni leghisti e in quelli del PD. Con un appuntamento al prossimo pride torinese e con la collaborazione della celebre serata gay Queever, la discoteca torinese più fine e simpatica, cui ho partecipato svariate volte con i miei amici gay e non.
Il più inconsueto: vince il premio stranezza Jack e Diane (Bradley Rust Gray, Usa 2012), il film dal cast più rinomato, con Juno Temple e persino la cantante Kylie Minogue (in un cammeo); pochi dialoghi e struttura sfilacciata per l’incontro-scontro tra due ragazzine particolari nell’assolata estate newyorkese e la nascita di una repentina attrazione, il tutto inframezzato da sequenze onirico-anatomiche che veicolano un’idea dell’adolescenza come fase “mostruosa”. Non posso dire di avere apprezzato queste digressioni (alcune sequenze sono a tutti gli effetti horror, splatter e persino un po’ gore), ma sono di grande effetto e costituiscono uno straniante ed efficace stratagemma per comunicare la passione come perturbazione orrorifica dell’anima.
Il più divertente: il ritmo più indiavolato, il sesso più scanzonato, la dirompente simpatia dei personaggi è prerogativa di El sexo de los ángeles (Xavier Villaverde, Spagna/Brasile 2012); un triangolo amoroso sofferto eppure dai risvolti esilaranti, quello tra tre giovani a Barcellona, una fotografa con un giornalista fidanzati da tempo e un sensuale insegnante di karate, che finisce per conquistare prima lui e poi anche lei. A rendere travolgente questo film, oltre all’ottima prova dei tre attori principali, è il microcosmo di amici di redazione che li circondano, spettegolando, dando lezioni, finendo per fare danni irreversibili, tra lacrime e sorrisi. Un film che mi ha ricordato, per la sua simpatia, A mia madre piacciono le donne (2002), sempre spagnolo. Un viaggio che mi ha portato dalle colonie penali polacche alle comunità religiose cilene, un giro del mondo fatto di sguardi, discriminazioni, prese di coscienza, dolori, sorrisi e amicizie. Un’umanità che mi ha profondamente conquistata, con il solo dispiacere di aver dovuto pagare 25 euro di spese di segreteria per poter lavorare al Festival (io come tutti i redattori di riviste web). Tutte le foto pubblicate nell’articolo sono tratte dal sito web ufficiale del Torino GLBT Film Festival, che ringrazio, o da Google Immagini. E voi lettori? Qual è il vostro film preferito a tematica GLBT?