Una kermesse che mi ha sorpreso per la delicatezza e la semplicità che hanno accompagnato il colore, la cultura e l’impegno di questi giorni, il tutto allietato dalla splendida notizia dell’entrata in vigore in Francia del mariage pour tous e delle adozioni gay, un’altra barriera abbattuta all’insegna dell’uguaglianza e della libertà degli individui. Un messaggio di speranza anche per noi che viviamo al di là delle Alpi, come ha ricordato l’Associazione Quore con il suo splendido documentario dall’eloquente titolo Vorrei, ma non posso.
Qui di seguito potrete leggere i nomi di tutti i film vincitori del Festival (come da comunicato stampa), corredati dalle motivazioni della giuria e più in basso il discutibile parere personale della vostra figura retorica, che a un occhio da critica unisce tutto il cuore del pubblico.
Concorso lungometraggi: Vince Boven is het stil: "per i temi intrecciati narrati con un'onestà di arte cinematografica di vigorosa qualità. Per l'elevato livello recitativo degli interpreti, per la crudezza poetica, per la fotografia livida e carnale. Per la capacità più unica che rara di trasformare il silenzio tragico nelle relazioni umane in grande forza comunicativa attraverso lo schermo". Menzione speciale a Will You Still Love Me Tomorrow? di Arvin Chen.

Concorso cortometraggi: Vince Bunny: "per aver raccontato quel che succede quando la gioventù lascia il campo alla vecchiaia e alla malattia, presentate entrambe con ruvida onestà e senza fare sconti. Bunny porta in una realtà possibile che tutti speriamo di vivere, in cui l'amore è solidale, presente e assoluto e che, per questi motivi, ci spaventa meno. È poi un segnale importantissimo di come il cinema omosessuale non abbia paura di affrontare anche il tabù della vecchiaia, mostrandosi sempre più sensibile e maturo nei confronti di tutte le sfaccettature della vita". Menzione speciale a The Men's Room di Jane Pickett "per come ha saputo esplorare una storia controversa e ambigua raccontandola con rara eleganza tecnica. Il bisogno, la paura, la ricerca di comprensione e la solitudine del protagonista vengono rappresentati con un'architettura filmica che scava nel profondo delle emozioni, tenendo lo spettatore col fiato sospeso fino all'ultima sequenza".
Queer Award: Vince Joven & Alocada "in cui lo sguardo sfrontato della protagonista trova spazio tra le pagine virtuali di un blog dove uno stile narrativo irriverente e dissacrante diventa strumento di una ribellione, anche autobiografica, alle costrizioni della vita quotidiana. La scelta di genere rimane sospesa, ma viene esplorata con passione e la sessualità viene vissuta in modo spontaneo, fisiologico e, soprattutto, libero".
Premi del pubblico:
Lungometraggi Alata di Michael Mayer (Israele/Usa, 2012). Documentari Paul Bowles: The Cage Door Is Always Open di Daniel Young (Svizzera/Marocco, 2012). Cortometraggi Holden di Juan Arcones e Roque Madrid (Spagna/Francia, 2012). IMPRESSIONI OSSIMORICHE
Sappiamo tutti per esperienza (diretta o indiretta) che spesso ai festival ci si trova davanti a film soporiferi, ermetici nel messaggio e nella messa in scena, con dialoghi scarni e inquadrature fisse, dove i titoli di coda vengono accolti dal pubblico con un unanime sospirone di sollievo.
Questo festival mi ha favorevolmente stupito perché, della ventina di proiezioni cui ho assistito, posso dire che si è trattato in maggioranza di film impegnati, interessanti, profondi, arricchenti, di grande atmosfera, con ottime prove degli autori e allo stesso tempo incalzanti, comunicativi e godibilissimi anche a livello di pubblico (ragion per cui mi auguro che almeno alcuni vengano presto acquistati, doppiati e portati negli stagnanti cinema italiani).




Il più struggente: Monster Pies (Lee Galea, Australia 2013), ovvero l’affinità elettiva di due ragazzi feriti dalla vita che si incontrano sugli (enormi) banchi di scuola di un liceo australiano e si innamorano, complice un compito a casa su Romeo e Giulietta. Una riflessione a tutto campo sull’interazione tra amore e dolore: il dolore per la perdita di un fratello, per la malattia di una madre, per l’incomunicabilità con un padre. Un dolore che non lascia scampo e che porta a un tragico finale di rinuncia alla lotta per la vita. Grandi spazi e poche persone, come si addice a un’ambientazione australiana, con una scelta azzeccatissima del cast: quante volte vi è capitato, guardando un film d’ambientazione liceale, di pensare “questi mezzi modelli quasi trentenni in che altra vita potrebbero passare per dei veri liceali?”; beh, in questo film non accade, i protagonisti sono dei credibilissimi adolescenti, dei ragazzi normali, di una bellezza acerba e di un talento estremamente espressivo.


Il più introspettivo e commovente: la trama più particolare e introspettiva è di White Frog (Quentin Lee, Usa 2012), che comincia con Nick, un ragazzino affetto da Sindrome di Asperger cui muore il fratello maggiore e unico confidente. Il film è un viaggio attraverso il bigottismo e l’incredulità della comunità di origine asiatica in un paesino statunitense: Nick è come un pesce in una boccia e incanta lo spettatore il suo tentativo di comprendere tutto ciò che non sapeva del fratello, fino a raffrontarsi con la scoperta della di lui omosessualità, inaccettabile per la famiglia e per lo stesso Nick, che vive protetto e ingabbiato dalle sue ferree regole comportamentali. Un racconto di formazione che permetterà l’uscita di Nick dalle sue gabbie, anche grazie all’interazione con gli amici e l’ex fidanzato del fratello. La diversità in tutte le sue forme e l’amicizia come dialogo che trascende ogni barriera. Un film che adorerei vedere sugli schermi italiani.

Il documentario più sentito: si tratta del già citato reportage dell’associazione Quore, Vorrei, ma non posso, una lunga intervista a due famiglie arcobaleno (una di omosessuali maschi e una di lesbiche con un bimbo) inframezzata ai matrimoni simbolici che hanno avuto luogo nel corso dell’ultimo Pride. Con interviste a Paola Concia, a Don Gallo e incursioni nei raduni leghisti e in quelli del PD. Con un appuntamento al prossimo pride torinese e con la collaborazione della celebre serata gay Queever, la discoteca torinese più fine e simpatica, cui ho partecipato svariate volte con i miei amici gay e non.
Il più inconsueto: vince il premio stranezza Jack e Diane (Bradley Rust Gray, Usa 2012), il film dal cast più rinomato, con Juno Temple e persino la cantante Kylie Minogue (in un cammeo); pochi dialoghi e struttura sfilacciata per l’incontro-scontro tra due ragazzine particolari nell’assolata estate newyorkese e la nascita di una repentina attrazione, il tutto inframezzato da sequenze onirico-anatomiche che veicolano un’idea dell’adolescenza come fase “mostruosa”. Non posso dire di avere apprezzato queste digressioni (alcune sequenze sono a tutti gli effetti horror, splatter e persino un po’ gore), ma sono di grande effetto e costituiscono uno straniante ed efficace stratagemma per comunicare la passione come perturbazione orrorifica dell’anima.







