Mentre nel Centro-Nord ci sono condizioni simili a quelle delle più ricche regioni europee, nel Mezzogiorno persiste un cronico sottosviluppo, in termini di reddito procapite, di condizioni del mercato del lavoro, di produttività e di condizioni di vita. Nella seconda metà del ‘900 più di cinque milioni di persone passarono dall’agricoltura ad altri settori produttivi, con un ritmo annuo di duecentocinquantamila unità. Ma nell’ultimo ventennio c’è stata la ripresa dell’emigrazione
Le rilevazioni Svimez su dati Istat ci dicono che dal 1990 al 2008 i migranti verso il Centro-Nord sono stati 2.123.217 di cui 195.219 laureati.[2] L’ipotesi è che l’anno 1993 abbia inciso in maniera significativa sulla scelta della maggior parte dei giovani laureati ad emigrare. In quell’anno ci fu il blocco dell’intervento straordinario proveniente dall’Agenzia dello sviluppo nel Sud, che aveva sostituito già nel 1986 la Cassa del Mezzogiorno. Quella che venne rinominata “la grande svolta” per le decisioni di policy seguite alla crisi economica del 1992, porta con sé fenomeni quali: la contrazione della spesa pubblica; il blocco, poi divenuto definitivo, dell’occupazione pubblica; la ristrutturazione e privatizzazione dei grandi impianti. Ne consegue che la domanda di lavoro, espressa dalle imprese e dalla pubblica amministrazione nel Sud, risulta incapace di soddisfare l’offerta di lavoro, espressa dai giovani in cerca di lavoro.
Un saggio di Giorgio Bodo e di Gianfranco Viesti conferma che a partire da quel momento i tassi di disoccupazione nel Mezzogiorno si sono alzati sensibilmente. Basti pensare che nel 1996 meno di 38 meridionali su 100 in età da lavoro sono occupati e questa disoccupazione acquisisce i caratteri di lunga durata, la sua evoluzione è atipica non solo per il livello, ma anche per la dinamica fortemente divergente. Si tratta di un fenomeno assolutamente anomalo nella realtà europea. Se si considera come indicatore di dispersione il “coefficiente di variazione tra regioni”, ossia il rapporto tra la regione con il più alto tasso di disoccupazione e quella con il tasso più basso, l’Italia di metà anni Novanta presenta i valori massimi di differenza.[3]
Possiamo dire però che questa situazione resta ancora oggi invariata. Nel 2010 il tasso di disoccupazione effettivo è stato del 10% nel Centro-Nord e del 25,3% nel Sud.
Per quanto riguarda i trasferimenti – non contando i pendolari di lungo raggio, ossia coloro che risiedono formalmente al Sud ma che studiano o lavorano regolarmente al Nord – essi sono stati nel periodo 2009-10, 109.000, il 17% dei quali laureati.[4]
Un altro elemento che spiega la debole performance del sistema economico del Mezzogiorno e la fuga del capitale umano maggiormente qualificato, è l’aspetto strutturale della produzione, che vede uno scarso numero di imprese di media dimensione e una scarsa specializzazione nelle produzioni più avanzate. Nei settori tradizionali, come quelli del Sud Italia, la concorrenza si esplica, più che sulle innovazioni, sul contenimento del costo del lavoro. Di conseguenza, in questi settori gli investimenti in ricerca e sviluppo sono alquanto ridotti e la necessità di manodopera qualificata, pur essendo pienamente disponibile, è abbastanza contenuta.
In conclusione meno s’investe in ricerca e sviluppo, meno le imprese saranno dinamiche e in grado di rispondere a quella che è oggi la domanda del mercato mondiale. In assenza di alternative valide nel territorio di provenienza non resta ai giovani laureati che trovare altri mercati di sbocco.
[1] Oman Wignaraja , Le Teorie dello sviluppo economico dal dopoguerra ad oggi, Milano, LED, 2005, p. 61.
[2] Svimez , 150 anni di statistiche italiane (1861-2011), Bologna, il Mulino, 2011, pp. 126-127.
[3] Giorgio Bodo, Gianfranco Viesti, La grande svolta: il Mezzogiorno nell’Italia degli anni Novanta, Roma, Dandini, 1996, pp.73-75.
[4] Svimez, Sintesi Rapporto sull’economia del Mezzogiorno 2011, Roma 27 settembre 2011, p. 28.
SCardinale Mezzogiorno oggi cause dell’emigrazione intellettuale