Questo articolo/riflessione nasce da un post di Simone Brambilla uscito su Nazione Indiana (qui). Il pezzo di Simone è molto intenso ed elaborato, e ne condivido appieno i punti. Tuttavia le sue parole mi hanno fatto sorgere con maggior urgenza un dubbio (una domanda) che già da tempo mi circolava nella testa e che ho avuto modo di riconoscere anche in molti dei miei coetanei durante interminabili discussioni sulla produzione letteraria italiana, sulle case editrici, sugli editor, sugli agenti, sul numero di persone che comprano e leggono libri, e sulla generale ignoranza del Paese.
È qualcosa che credo valga la pena condividere.
Negli ultimi tempi numerose sono state a questo proposito le iniziative, le riflessioni, le proposte, le analisi e le prese di posizione. Qualcuno dei miei interlocutori, in accordo con quanto viene sostenuto da molti, soprattutto in rete, suggeriva occorresse penetrare maggiormente nella società italiana e innalzarne la sensibilità letteraria, proponendo ad esempio testi di maggiore qualità.
Non concordo. A mio parere la nostra produzione letteraria contemporanea vanta già testi di grande valore e autori d’assoluto talento. Il problema, piuttosto, (e paradossalmente) potrebbe essere un altro: ovvero che tali autori e tali testi non sarebbero sempre in grado di parlare al pubblico che vorrebbero.
La questione potrebbe essere stata posta fin dal principio in termini sbagliati. Più che studiare aree di intervento per innalzare la sensibilità letteraria del Paese, ci troveremmo di fronte al compito ben più arduo di doverla addirittura (ri)creare.
[Semmai, considerando che l’Italia è il Paese più passivamente medializzato dell’intero occidente, il discorso di ‘innalzare’ la sensibilità andrebbe fatto nei confronti della televisione].
Malgrado infatti negli ultimi anni siano usciti vari romanzi di grande valore e di forte interesse, anche linguistico, si è spesso trattato di testi che hanno faticato a conquistarsi un pubblico al di fuori di quello per cui, diciamo così, erano stati pensati e scritti.
Se è vero che il valore di un romanzo o di una storia va ricercato non solo in quello che racconta e nella maniera in cui lo fa ma anche nella sua capacità di conquistare lettori al di fuori di un suo potenziale pubblico di riferimento, è anche vero che questo continua a verificarsi con molta rarità nel nostro Paese (a differenza di quanto invece avviene all’estero).
Le ragioni sono complesse (e in buona parte affondano le radici negli ultimi duecento anni di storia italiana, nell’analfabetismo, nel ruolo del potere in relazione alle masse, nella frammentazione politica e culturale) e cercare di affrontarle nell’ambito di un breve articolo significherebbe incappare per forza di cose in generalizzazioni e fraintendimenti, col rischio di suscitare un altro di quei circoli di polemiche in cui spesso finiamo per spendere buona parte delle nostre energie (anche letterarie).
Dai tempi di Madame de Staël a oggi, pare che uno dei grossi problemi della produzione letteraria nostrana sia quello di ‘arrivare’ alla propria gente: raccontare agli italiani le proprie storie, e riuscire a farlo in maniera tale da essere letti, ovvero da divenire parte costituente di quell’identità che si è voluta raccontare.
Esistono ovviamente le eccezioni alla regola. Chiunque potrebbe elencare autori e libri che hanno saputo ‘formarci’ e nei quali siamo stati capaci di ‘riconoscerci’, come singoli e come popolo.
Resta il fatto che buona parte della nostra produzione letteraria, al contrario ad esempio di quanto è avvenuto con quella cinematografica (soprattutto nel passato) continua a fare fatica a raggiungere uno status di ‘popolare’.
È un fraintedimento terminologico che ha radici sociali e culturali ben definite. ‘Popolare’, come si sa, in italiano assume spesso il significato di ‘basso’, di ‘poco erudito’, di ‘scarsa qualità’. Tale accezione è ancora molto forte in letteratura, mentre ad esempio non lo è più, da tempo in ambito, musicale (dove infatti l’uso del termine non comporta più alcun giudizio di qualità sull’opera a cui si fa riferimento).
In Italia si continua a lamentare l’assenza di un grande romanzo contemporaneo. Al tempo stesso si “cerca” da più parti il “Carver italiano” senza considerare che, forse, Carver, in Italia, non sarebbe mai stato pubblicato. A questo si vada ad aggiungere che negli USA le sue raccolte di storie brevi sono uscite più di trent’anni fa, ovvero che già da tempo la produzione letteraria d’oltreoceano pare essersi spinta in altre direzioni. Senza dimenticare che l’Italia, anche in virtù dell’importanza che l’elaborazione linguistica e la ricerca formale hanno avuto e continuano ad avere nella nostra tradizione letteraria,
coltiva da sempre un difficile rapporto di comprensione/fraintendimento/amore/odio nei confronti del minimalismo.
L’impressione che si ha – e qui torno allo spunto iniziale, ovvero alla produzione letteraria nostrana, alla scarsa percentuale di persone che leggono e alle strategie per risolvere la cosa – è che la nostra letteratura sia prigioniera di una sorta d’interna dicotomia.
(Non è forse un caso che in italiano non esistano termini davvero adeguati a tradurre la parola fiction.)
Da una parte, infatti, molti critici sembrano non apprezzare opere che non abbiano un alto tasso d’intellettualismo e letterarietà.
Dall’altra, esiste una produzione mainstream capace di rifilare a lettori sprovveduti qualsiasi cosa gli sia messa davanti, previo apposito traino mediatico-giornalistico.
I lettori cosiddetti ‘forti’ hanno generalmente lo stesso gusto iperletterario di molti critici, e non si riconoscono nel resto del Paese che non legge o, se legge, legge opere di poca sostanza, ovvero opere di cosiddetto ‘puro intrattenimento’. I lettori meno ‘forti’, invece, non si riconoscono nei gusti altolocati e nelle opere ‘difficili’ che leggono i primi, e non determinano il successo editoriale di testi spesso di valore.
La generalizzazione è d’obbligo, e me ne scuso. Eppure tra questi due estremi esiste una sorta di vasta terra di nessuno dove qualcuno in realtà c’è, e ivi continua a vagare.
Io, come tanti, mi considero uno di questi qualcuno.
Ecco il mio drama. La maggioranza degli autori italiani contemporanei che amo e che leggo non vengono generalmente apprezzati dalla maggioranza delle persone che conosco (mi riferisco soprattutto a gente che svolge professioni estranee al mondo della cosiddetta ‘produzione culturale’). Tanto che, spesso, quando devo consigliare un libro di un autore italiano a chi come me (ma in qualche migliaia di differente maniera da me) si trova in questa vasta, vastissima terra di nessuno, mi scopro in difficoltà.
Mi è sorto così il dubbio (opinione non condividibile, naturalmente, aspetto critiche feroci) che il motivo per cui in Italia ci sono molti autori (amati e consigliati da critici, da blogger, da addetti ai lavori e da soggetti quali il sottoscritto) che faticano a raggiungere una più ampia base di lettori non è che la base è stupida o sorda, ma che non è a quella che parlano. Mi pare, anzi, che molti siano i romanzi scritti per lettori già esistenti e quindi non in grado di riavvicinare ai libri il cosiddetto – la famigerata maggioranza – lettore che non c’è, che non c’è più, o che non c’è mai stato. Come se ci trovassimo di fronte a testi che generano una distanza linguistica di partenza col lettore, contribuendo ad allargare quella frattura tra minoranza ‘letterata’ e maggioranza ‘illetterata’ che invece vorrebbero (e potrebbero) sanare.
Conclusioni?
È un dubbio, ripeto. Una domanda che non vuole ‘provocare’ ma sforzarsi di ‘capire’. (E vuole provare a farlo anche a costo di scendere in territori in cui è sempre rischioso andare ad avventurarsi).
La parola, forse, per risolvere l’impasse italiano, andrebbe ancora una volta data agli addetti ai lavori, ai critici, agli scrittori, agli editor, alle case editrici, con un invito un po’ folle (anche se forse un po’ troppo generico) non tanto a cercare strategie per penetrare maggiormente nella società, quanto a far sì che sia la società a penetrare nuovamente nel mondo degli addetti ai lavori, dei critici, degli scrittori, degli editor, delle case editrici: perché capire cosa un popolo ha bisogno di sentire è forse il primo passo per ricominciare ad essere ascoltati.
Forse la cultura non va ‘portata’ ma va ‘suscitata’ (anche e soprattutto attraverso il racconto di chi e) in chi si è dimenticato d’esserne l’autentico portatore: la massa, la placca a quanto pare indifferente su cui questo paese sembra essersi da tempo incagliato.
E forse la maniera migliore per farlo è quella di reimparare in primo luogo a intrattenerla (ecco, l’ho detta, la fatidica parola: intrattenerla) la massa, con intelligenza, con coraggio, anche letterariamente, soprattutto letterariamente.
Tenendo bene in conto il precetto che quando scriviamo, quando raccontiamo, non siamo noi a parlare alla gente ma è la gente che sta parlando a noi
“Ché se una storia non può essere letta al macellaio o all’alimentari sotto casa” mi diceva un tempo mia nonna “allora per chi l’abbiamo scritta?”
Magazine Cultura
Mi diceva un tempo mia nonna (e altre rischiose considerazioni d’inizio estate)
Creato il 06 giugno 2011 da Fabry2010Possono interessarti anche questi articoli :
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