Terza e ultima parte, che Philippe Daverio, ne “Il Capitale”, dedica al grande Michelangelo. Gli ultimi anni di uno dei più incredibili capitali creativi, che il mondo abbia mai avuto. Una vita guidata da un’instancabile frenesia che lo aveva portato, giorno dopo giorno, notte dopo notte, a graffiare nel marmo. Il genio che ha posseduto e travolto la vita di quest’uomo trova il finale nel 1564 con il suo testamento spirituale e artistico: La Pietà Rondanini. Ormai novantenne, alle prese con la la sua ultima opera, l’estremo abbandono al “non finito”, la nudità
del Cristo e il dialogo tra lo scultore e l’aldilà. Nel marmo le figure del Cristo e della Vergine, accanto alle gambe e al braccio di una terza persona mancante, hanno i volti erosi e consunti, quasi diano segno di un disfacimento in atto. I loro corpi si compenetrano l’uno nell’altro e tutte le conquiste michelangiolesche della bellezza eroica, la perfezione anatomica, la figura serpentinata, si stemperano davanti ai colpi di scalpello abbozzati nelle figure. Michelangelo vi lavorò sino a quando, il 18 febbraio 1564, la morte lo colse. Creò attraverso il “non finito” della Pietà Rondanini, il “non finito” della vita.
La si considera un’opera non finita perché, vista l’età avanzata, non avrebbe avuto la forza di completarla. In realtà il non-finito era divenuto un linguaggio ben preciso, iniziato anni prima e applicato con attenzione nel David, dove tutto il corpo è perfettamente completato, ad eccezzione dei capelli che risultano solo abbozzati, chiaro richiamo scultoreo alle figure antiche che nella Roma di quegli anni erano state riporate alla luce, studiate dagli artisti, ammirate da tutti, divenute il simbolo della bellezza e dello splendore del passato. Statue, dove la capigliatura è lavorata in riccioli e la rifinitura non è perfetta. Michelangelo ha visto le bianche testimonianza antiche e ha applicato il mito di questa bellezza, nell’esecuzione del David, affidando al non-finito il linguaggio fondamentale della sua creatività. Il non-finito michelangiolesco va visto come un mezzo tecnico espressivo, del quale l’artista si serve per meglio chiarire e sottolineare i suoi concetti, e che usa con estrema libertà e straordinario dominio.
Un mezzo che, diventa prassi nella Biblioteca Laurenziana, poco distante dalle Cappelle medicee,commissionata da Clemente VII, secondo papa madiceo. Nel vestibolo, come viene chiamato l’androne, dai fiorentini, vi è la testimonianza di tutte le catastrofi progettuali del Buonarrotti, frutto di continui compromessi : l’aggiunta delle finestre, non da lui volute, sue, invece le colonne, concepite come elementi atti a dare ritmo anche cromatico agli involucri murari, e che contemporaneamente, sottolineano il valore materico. L’imponente scala, alterata rispetto al suo progetto, prevista in legno e mutata in pietra serena su richiesta di Cosimo I°, viene costruita anticipando la morbidezza barocca. Il tutto in mezzo ai muri che, sono rimasti sostanzialmente non ultimati e visibili nel loro intonaco grezzo. La biblioteca vera e propria corrisponde ai modelli famosi nel quattrocento, con i libri legati ai panchi che vengono consultati grazie alla luce naturale. Tutto è disegnato da Michelangelo ma, è il frutto di processo di lettura, comprensione, interpretazione e riadattamento. Tutti i suoi progetti andavano dai committenti, dove venivano riletti e modificati, infine, ritornavano a Michelangelo che, doveva creare l’opera.


Malgrado il travaglio interiore, da vita a un lavoro che diviene uno dei più famosi e celebrati di tutto il mondo. Uno dei più grandi capolavori pittorici in assoluto realizzati dal genio artistico rinascimentale.
Michelangelo muore, dopo aver vissuto tutta la sua vita nella potenza d’espressione, nella forma e colore, nella bellezza e armonia, con la sicura padronanza tecnica, una vita dedicata all’arte della creazione che noi, ancora oggi, ammiriamo.





