«L’Italia è mansionata da infami, ladri e barbari, gli enti e gli uffici mi hanno riempito di dolori e io ho affrontato la sorte menandomi all’avventura in quest’aperta campagna pure essendo un grande invalido del lavoro. Fui infortunato il 16 Aprile 1943 con frattura del malleolo di due calcagni e della colonna vertebrale alla seconda e terza lombare. E perché mi è avvenuto questo infortunio? È un infortunio di patria, subito per l’onore della patria. La mia storia è lunga».
Questa storia “lunga” è la storia di Michele Mulieri, un “Figlio del Tricolore” che però non si riconosceva cittadino dell’Italia; infatti, era il capo assoluto della Repubblica dei Piani Sottani. È la storia, insomma, di un italiano-non italiano; come ce ne sono, del resto, altri sessanta milioni e che pensano la stessa cosa: «l’Italia è mansionata da infami, ladri e barbari». Confesso di non conoscere il significato del singolo verbo “mansionare”, in compenso conosco il senso dell’intera frase che ho sentito ripetere, con varie sfumature, innumerevoli volte nei vari angoli dello Stivale.
Non saprei quando Mulieri abbia espresso questo pungente giudizio sull’apparato burocratico italiano, ma l’autenticità delle parole è attestata da Rocco Scotellaro che ritenne, non senza ragione, di dedicare a questo personaggio una buona parte del suo libro Contadini del Sud. Ma chi era Mulieri? Egli è stato sicuramente il capo di questa Repubblica fondata da lui stesso a un bivio stradale nei pressi di Grassano, paese della provincia di Matera. Una micro-nazione che non ebbe, nel corso della sua storia, riconoscimenti ufficiali ma che fu tenuta comunque in una certa considerazione dall’Italia di quegli anni.
La “lunga” storia di Michele Mulieri è la storia “semplicissima e complicata” per usare un’espressione di Scotellaro il quale, all’epoca, scriveva: «Egli è oggi il Presidente unico e assoluto della sua piccola repubblica assoluta, situata, come si vede nello schizzo planimetrico, a un nodo di strade, sulla Via Appia, tra Grassano e Tricarico. Egli è venuto a scegliere il suo domicilio come un “avventuriero”».
La sua indole di “avventuriero” era emersa già in giovane età quando – ricorda lui stesso – «me ne andiedi a Potenza a lavorare». Nel capoluogo lucano, si concedeva anche qualche innocente svago non tollerato però dal regime fascista: «Era il Primo maggio, stando a spasso, credemmo di andarci a fare un piccolo passatempo fuori Potenza, sotto il Ponte di Montereale con vari amici. Eravamo sette persone, prendemmo una carrozza in Piazza Prefettura e la questura, sospettando una sommossa di antifascisti, ci pedinò. Come arrivammo a una casa conosciuta da un amico che teneva una ragazza che vendeva vino familiare, un camion ci venne appresso: non ci fecero scendere, ci portarono in questura».
Questo episodio non è privo di significato perché aiuta a comprendere tutto il dramma dell’esistenza del povero Mulieri: lui che era orgogliosamente fascista veniva perseguitato dal regime, lui “figlio del tricolore” doveva guardarsi dallo Stato italiano, “mansionato” da infami. Stando a quello che raccontava lui stesso, una volta, ancora minorenne, andò a Roma e si trovò una donna. “L’amante era cattiva”, si lamentava e “di mala abitudine” perché «bazzicava tutte le settimane il Monte di Pietà con la roba mia e io il sabato l’andavo a riscattare». Non è chiaro per quale ragione Mulieri si cacciasse in situazioni di questo tipo, ma forse lui stesso una vera ragione non la ricercava.
Durante il fascismo, Mulieri partecipa alla guerra d’Africa, dove però si rivela un indisciplinato. Frequenti sono gli episodi, di cui si rende responsabile, di oltraggio alle autorità militari; lo fa, comunque, per “eccesso di zelo”: pretendeva ciò che il Duce aveva promesso, l’affermazione cioè sul suolo dell’Impero dello “spazio vitale” per la stirpe italica e nello specifico per la sua famiglia. «Io stavo sempre esaltante, tutti gli anni ho fatto i salti miei ché non mi è piaciuto mai l’ambiente di queste terre misere. Allora me ne andai in Africa all’avventura» – di male in peggio.
Rimpatriato, avviò un contenzioso con l’INPS, che si trascinerà per lunghissimi anni, riguardo a una indennità di pensione. Forse adirato a causa queste vicende, per lui sommamente incresciose, fece un passo che segnò la sua vita. Il 7 marzo 1950, che potremo assumere forse come data di fondazione della sua Repubblica, gli nacque l’ultimo figlio e Mulieri avrebbe dovuto recarsi all’ufficio dell’anagrafe comunale per denunciarne la nascita. E invece, non si capisce con quale autorità, convocò presso il Comune di Grassano l’arciprete, il maresciallo dei carabinieri e il sindaco ai quali notificò la sua decisione, così gravida di conseguenze, di non denunciare la nascita del figlio.
Forse perché avvertiva l’esigenza che comunque questo suo figlio avesse una patria, Mulieri fondò uno Stato tutto suo. Comprò un terreno ai Piani Sottani, un terreno “senza un albero” ma in un punto che gli sembrava strategico per il passaggio delle corriere che andavano da Matera a Potenza, da Grassano e da Tricarico diretti alla stazione ferroviaria, da Irsina a Tricarico e con un’altra corriera che scendeva da Accettura con capolinea proprio in quel benedetto bivio stradale. Per quello che si sa, il furioso fondatore disse di aver comprato “per protesta” quel terreno “a un nodo di cinque strade”, aspetto per lui altamente suggestivo, per vivere lontano dal suo paese dal quale sentiva di non essere sufficientemente amato. Scotellaro ricorda, in Contadini del Sud, che su quel terreno Mulieri costruì anche una casa: «C’è un piccolo spaccio di generi alimentari e di bevande: pasta, lenticchie in una botticina di vetro, qualche barattolo di pomodoro, qualche scatola di sardine, caramelle e 7, 8 bottiglie di liquori, le bottiglie di birra Peroni e di gassose».
Lo spaccio non ebbe molti clienti, nonostante la sua solenne insegna Ristoro dell’Anno Santo. Scrive Scotellaro: «Mulieri non spiega bene perché ha chiamato Ristoro Anno Santo il suo spaccio. […] Oggi dice che quell’iscrizione vuol significare che si combatte contro i diavoli». Poiché l’attività commerciale si rivela poco fruttuosa, deve ripiegare sui lavori in agricoltura, settore che egli considera però poco strategico. Ed è per questo, credo, che comprende l’importanza degli idrocarburi; si attrezza per vendere benzina e nafta anche se, non avendo un distributore, deve attingere direttamente dai bidoni. «Non vendevo niente, qualche gassosa a operai e accomodavo manichi di zappe e di pale, piantavo la vigna. Un signore mi fece prestito per avere qualche fusto di benzina e di nafta dalla “Esso” e vendevo secondo l’affollamento della strada, poco per pagare l’interesse delle cambiali del prestito dalla percentuale che mi aspetta dalla vendita».
Mulieri tentò allora di introdurre nella sua Repubblica la norma della consumazione obbligatoria, come capita di vedere in alcuni luoghi di intrattenimento. È una norma inserita addirittura in quello che possiamo considerare l’atto della proclamazione della Repubblica sottoscritto nel 1952: «Io in persona mi nego a tutte le chiamate e mi dichiaro repubblica assoluta avventuriero grande invalido Mulieri Michele. Chi qua deve entrare deve consumare anche domandare deve regalare non sto a perdere tempo a disposizione dei fessi ho i figli, tutto è per vivere avventuriero grande invalido Mulieri Michele».
La Repubblica dei Piani Sottani non era che un fazzoletto di terra di quattromila metri quadrati e non fu abitata che dalla ristretta cerchia dei membri della famiglia Mulieri, in tutto una ventina di persone. Lo stesso Michele Mulieri, più che il capo di una repubblica assoluta, dava l’impressione di non essere altro che l’alieno della porta accanto. Era un uomo che non perdonava all’Italia di aver voltato le spalle al mondo antico e che guardava alla democrazia come disordine sociale. Era uno di quegli uomini del Sud che avrebbero preferito vivere da briganti, era l’esponente di un brigantaggio che aveva dovuto consegnare le armi e al quale non rimaneva altro che combattere a mani nude contro la burocrazia di uno Stato nel quale non si riconosceva. Una burocrazia che, come ha osservato Scotellaro, occorreva «intimorire e sfottere per piegarla alle richieste giuste». Mulieri era, infatti, l’uomo delle “petizioni alle Autorità” – per riprendere un’altra espressione di Scotellaro – e questa è in fondo la sua attualità. Soprattutto con i suoi “tebelloni”, egli rivolgeva incessantemente proteste e petizioni a quelli che lui chiamava “gli uomini di cartone”: al Presidente del Consiglio, al Prefetto, ai parlamentari, ai dirigenti dei vari uffici pubblici e ovviamente soprattutto all’INPS. Rivolgeva appelli anche al suo collega il Presidente della Repubblica Italiana, al quale si rivolgeva chiamandolo col nome di battesimo per richiamare quella confidenza che deve esserci tra capi di Stato.
Nel corso delle sue manifestazioni di protesta, Mulieri si limitava solitamente a innalzare i suoi “tabelloni” con i quali voleva semplicemente «spiegare perché puzza questa lorda e balorda provincia di Matera». Di tanto in tanto, però, le manifestazioni assumevano toni più accesi, soprattutto quando le autorità si mostravano sorde ai suoi appelli. Come una volta, quando commise oltraggio nei confronti di un pubblico ufficiale: «Al Maresciallo allora li levai i gradi in pubblica piazza perché loro mi avevano violato la sistemazione di lavoro. Fui trasportato in caserma e tutti uniti i carabinieri mi hanno massacrato di botte riportandomi uno sfregio permanente al capo col mio medesimo bastone in possesso perché sono grande invalido e riempendo il mio fazzoletto, ancora presente, di sangue».
Mulieri conservò questo suo fazzoletto macchiato di sangue come prova dei torti subiti, ma anche come la bandiera di un uomo che difendeva il suo fazzoletto di terra da una burocrazia avida. La sua fu una battaglia solitaria, titanica. Forse avrebbe dovuto avere un diverso approccio ai problemi che si presentavano. Anche la moglie desiderava che avesse una maggiore duttilità: «ditelo a mio marito che deve agire con più calmezza».
Non c’era modo però di spingere Michele Mulieri a più miti consigli. Se i suoi affari andavano male non poteva non essere che colpa di qualche ente di Stato; se il suo distributore di benzina non aveva molti clienti la responsabilità non poteva non essere che dell’ENI e per questo addirittura osò sfidare Enrico Mattei a duello “a dorso nudo e all’arma bianca”.
Se la Repubblica dei Piani Sottani non ebbe molta fortuna, forse fu per il temperamento furioso di Mulieri; o forse fu veramente colpa dello Stato italiano “mansionato” da infami, ladri e barbari. Ma certamente una sfortuna ancora più grande fu il fatto che questo “avventuriero e grande invalido” che fu Mulieri visse in un’epoca ingrata. Fosse vissuto oggi, col suo chiodo fisso di denunciare a ogni piè sospinto la corruzione dei pubblici poteri e i maltrattamenti da parte della burocrazia statale, con la sua ostinazione a rivolgere continue proteste e petizioni agli “uomini di cartone” delle istituzioni da «intimorire e sfottere per piegarla alle richieste giuste», Michele Mulieri avrebbe un bel numero di seguaci, soprattutto nella Rete, e una nutrita rappresentanza parlamentare.
Mulieri non ebbe che una Repubblica di appena quattomila metri quadrati di territorio, una ventina di sudditi e una cassa di legno dove archiviava – come una specie di blog – i testi delle sue proteste, dei suoi appelli, delle sue denunce; in questo scrigno racchiudeva la sua visione delle cose e le sue rivelazioni che si portava dietro da secoli remoti e che scaricava ogni tanto sul tavolo maleodorante della modernità. Il padre fondatore della Repubblica dei Piani Sottani avrebbe potuto avere una maggiore risonanza se avesse avuto a sua disposizione i social network che ci sono oggi. Ma non si può avere tutto nella vita e bisogna accontentarsi. Come disse saggiamente una volta sua moglie: «Io mi contento pure di questa solitudine di campagna».