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MicroMega: Democrazia reale, ora! Gli “indignati” arrivano a Roma
Creato il 31 maggio 2011 da Nineteeneightyfour«Senza casa, senza lavoro, senza paura». Una piccola scritta rossa su un grande striscione bianco, poco sotto il più gettonato «democrazia reale ora!», cattura la mia attenzione. È una progressione decisamente eloquente, non c’è che dire, quella che i nostrani «indignati», riunitisi a Piazza San Giovanni in Laterano sull’esempio dei loro fratelli maggiori spagnoli, hanno utilizzato a mo’ di autorappresentazione. Chi ha visto peggiorare la propria situazione socio-economica e ha dovuto rimettere in discussione le proprie aspettative occupazionali in maniera repentina nel giro di due o tre anni, comincia a pensare di non avere veramente più nulla da perdere: questo, mi viene da pensare, è il significato di quei tre «senza» in successione. Un paio di decenni di politiche economiche neoliberiste, poi lo scoppio della crisi finanziaria con annesso travaso di risorse dalle tasche delle famiglie a quelle dei grandi istituti bancari, un conseguente impegno dei governi di ogni colore a fare cassa tagliando la spesa pubblica ed ecco trasformati i figli del ceto medio, talvolta ultrascolarizzati e plurilaureati, in disoccupati cronici, senza casa, senza lavoro, ma anche, sempre più, senza paura. Soprattutto, ed è l’impressione che mi rimane dopo aver girato un po’ per la piazza e aver ascoltato alcuni degli interventi che si susseguono al microfono, sempre più consapevoli della dimensione collettiva dei loro problemi. Non è un caso se, sulla via del ritorno, mi tornano in mente con insistenza le parole del don Milani di Lettera a una professoressa: «ho scoperto che il mio problema è anche il tuo. Sortirne da soli è l’avarizia, sortirne insieme è la politica».
Già, la politica. A piazza San Giovanni, sotto la statua di San Francesco d’Assisi, i protagonisti di quella che aspira a diventare la «Italian Revolution» ci tengono a specificare di essere «democratici, nonviolenti e apartitici» ma di certo non apolitici. Fare politica qui vuol dire innanzitutto riprendersi il proprio futuro, partecipare, opporsi in maniera frontale alla separatezza istituzionale che affligge una classe dirigente sempre più autoreferenziale, sempre più lontana dai bisogni concreti delle persone: reddito, casa, lavoro, sanità, trasporti, istruzione, cultura. È questo clima di rifiuto della delega, molto probabilmente, che spiega l’insistenza sul tema della democrazia reale, contrapposta alla finta democrazia del sistema bipolare in cui schieramenti e partiti in apparente contrapposizione tra loro sono chiamati alternativamente a mettere in pratica ricette politiche molto simili. Vale per l’Italia, e vale anche per la Spagna. E i ragazzi spagnoli di Puerta del Sol, di Plaça de Catalunya e di altre quaranta fra città e piccoli centri della penisola iberica, questo aspetto sembrano averlo molto chiaro, tanto da aver inserito fra le loro rivendicazioni anche la richiesta di un sistema elettorale proporzionale «che non discrimini nessun partito politico né volontà popolare». Non che qui i partiti politici siano amati, tutt’altro. Eppure è forte la consapevolezza del legame che tiene unito il sistema bipolare al carattere monocorde delle politiche economiche messe a punto a Bruxelles, a Washington, o nei lussuosi uffici di qualche agenzia di rating.
«L’idea di “fare come in Spagna” è nata su sollecitazione di un gruppo di ragazzi spagnoli residenti a Roma che hanno organizzato, qualche giorno fa, un sit-in di solidarietà con le manifestazioni in corso nella penisola iberica», mi spiega Chiara. «A quell’incontro c’era anche qualche italiano, alcuni venivano da precedenti esperienze politiche, altri no, ma quello che è più importante è che siamo stati conquistati subito dall’idea di un movimento che proponesse una vera e propria “rivoluzione etica”, un nuovo modo di intendere la società, la politica e l’economia con al centro l’essere umano e non il profitto». Quando osservo che liberare l’economia dal profitto è un obiettivo politico quanto mai ambizioso e decisamente «sistemico», Dario interviene prontamente nella discussione per specificare che «noi non siamo contro il capitalismo e contro il mercato; solo vorremmo un’economia più giusta, un capitalismo meno selvaggio e più rispettoso della vita delle persone, qualcosa che è ancora tutta da inventare e da costruire». «Le categorie di destra e sinistra», prosegue Chiara sulla stessa lunghezza d’onda «sono legate al passato, e non crediamo che servano molto a spiegare quello che sta succedendo e ad individuare le risposte da dare. A Puerta del Sol, a Madrid, in piazza c’erano sia ragazzi di destra che di sinistra, e questo non ha impedito comunque di elaborare insieme una piattaforma rivendicativa».
Sarà, ma a scorrere rapidamente il manifesto degli indignados spagnoli, salta agli occhi una tale caratterizzazione politica in senso antiliberista che sembra difficile pensare a un endorsement da parte di un giovane fan di Rajoy: vada per l’eliminazione degli sprechi della classe politica, che è il classico tema che (a parole) mette d’accordo tutti, ma quando si arriva ai temi economici e sociali, ci si imbatte in proposte che vanno dalla riduzione della giornata lavorativa per combattere la disoccupazione (qualcuno si ricorda ancora delle 35 ore di bertinottiana memoria?) all’aumento delle tasse per i più ricchi, all’esproprio delle case costruite e rimaste invendute per farne alloggi popolari, all’introduzione della patrimoniale, o ancora all’aumento delle risorse destinate a scuola, sanità e trasporti, per concludere con un programma di assunzioni nel settore pubblico e con la nazionalizzazione delle banche in difficoltà per farne delle «banche pubbliche sotto controllo sociale». Insomma, roba da far impallidire Hugo Chavez…
Luca, che interviene al microfono, nella vita fa il muratore, ha lavorato anche nel cantiere della metro C dove recentemente è morto un operaio, e prova a fare esattamente questo tipo di riflessione. «La separatezza di questa classe politica vergognosa è direttamente collegata alle morti sul lavoro, alla disoccupazione e al non riuscire ad arrivare alla fine del mese». A un certo punto gli scappa anche detto che è iscritto al sindacato e che milita in un partito politico, e lì la reazione dell’uditorio non si fa attendere. «Ciascuno di noi ha le sue idee politiche, e magari in passato ha votato questo o quel partito», sostiene Bea, che è spagnola ed è qui in Erasmus «ma riteniamo che quello che stiamo facendo qui sia qualcosa che vada oltre, qualcosa che ha a che fare con la nostra dignità e i nostri diritti di esseri umani e di cittadini, di persone, per cui preferiamo cercare la massima trasversalità e lasciare in secondo piano le contrapposizioni politiche». Mario, anche lui spagnolo, la pensa in maniera simile: «in Spagna il movimento è riuscito ad estendersi così tanto anche alla gente “normale”, anche agli anziani, alle madri di famiglia, proprio perché ha scelto di non far leva sulle divisioni partitiche, ma sull’idea di un’unità di popolo, un polo indignato, che veramente non ne può più». È lo stesso concetto che viene ribadito, oltre che in molti interventi, anche nel volantino che viene distribuito in piazza: «A lungo si è discusso sul nome di questa realtà. Italian Revolution? Democrazia Reale Ora? Indignati? Poi ci siamo resi conto che noi non abbiamo un nome, o meglio, che il nome è indifferente. Se volete chiamarci, chiamateci gente, cittadini, persone, o esseri umani stanchi, indignati e che esigono un cambiamento. È un rivoluzione Etica quella che serve, è democrazia reale ora quella che dovremo pretendere».
Ma come funziona, in concreto, la democrazia reale? «In alcune città spagnole», mi dice Chiara «si sta cominciando a fare sul serio: si è scelto di decentrare, di abbandonare le piazze centrali e di tentare di mettere in piedi esperimenti di democrazia diretta nei vari quartieri, andando prima a sensibilizzare gli abitanti, facendo dei volantinaggi e discutendo con loro». Nella piazza romana, al momento, i metodi di discussione e di decisione, mutuati in parte da quelli utilizzati dai ragazzi di Madrid, sono ancora in fase di definizione. Molti sono già consapevoli del sistema gestuale utilizzato in Spagna durante le assemblee. Far vibrare in alto le mani, a braccia tese, equivale ad un gesto di approvazione, ad un applauso o, in caso di votazione, ad un voto favorevole. Incrociare gli avambracci all’altezza del volto significa invece segnalare un dissenso. Quando poi qualcuno, parlando, si dilunga o si ripete, la cosa gli viene gentilmente segnalata ruotando le braccia di fronte al petto, con un gesto che sembra dire: «riavvolgere il nastro». Certo è che si preferisce il metodo del consenso rispetto a quello della votazione a maggioranza. Alla fine dell’assemblea, viene anche votata una divisione in commissioni e gruppi di lavoro, per affrontare tematiche specifiche in vista dell’elaborazione di un manifesto. C’è molta insistenza sul fatto che questo deve essere il frutto di un lavoro collettivo. Per il momento, in un grande bussolotto vengono raccolti i pensieri e i suggerimenti di tutti coloro che vogliono contribuire con un «pizzino». Le decisioni verranno poi riportate all’assemblea, che è sovrana e che ha l’ultima parola su tutte le questioni.
Ma in Spagna, con il tentato sgombero di Plaça Catalunya a Barcellona, si è già cominciato a vedere anche un altro aspetto con cui gli «indignati», prima o poi, potrebbero essere costretti a fare i conti, vale a dire quello della repressione. Sulla caratterizzazione pacifica e nonviolenta del movimento l’accordo è totale, tanto che, per organizzare l’incontro, è stata chiesta una regolare autorizzazione per l’occupazione di suolo pubblico, e tanto che, quando qualcuno utilizza il termine «occupazione», riferendosi ad una possibile permanenza ad oltranza in piazza nei prossimi giorni, c’è chi lo contesta. Per il momento, si decide di replicare l’appuntamento senza dar vita ad un presidio permanente. Quando poi si stabilisse di seguire l’esempio degli spagnoli fino in fondo, l’idea è quella di andare avanti con determinazione, ma senza cercare uno scontro fine a sé stesso. A Barcellona, del resto, si sono viste scene da anni Sessanta, con i manifestanti che offrivano fiori ai poliziotti in tenuta antisommossa. Rivoluzionari sì, e «senza paura». Ma pur sempre gentili.
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