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Miljana Cunta. Za pol neba (Per metà del cielo)

Creato il 04 dicembre 2010 da Fabry2010

Miljana Cunta. Za pol neba (Per metà del cielo)

Poesia in giallo e nero e rosso. Di Francesco Tomada

L’autrice slovena Miljana Cunta giunge alla sua prima raccolta, “Za pol neba” (Per metà del cielo), dopo un percorso lungo e importante in campo letterario: sebbene giovane (è nata nel ’76), è stata infatti per anni responsabile del festival internazionale di Vilenica, e si è impegnata in diversi settori della vita culturale slovena. Difficile dire quanti stimoli esterni siano dunque confluiti nella sua scrittura e forse poco importa saperlo, perché in ogni caso Miljana Cunta dimostra una spiccata capacità di interiorizzare e riproporre impulsi che a volte, nell’arco di poche parole, aprono gli orizzonti in direzioni diametralmente opposte (“Sulla parete ad alta voce tace / il tempo trattenuto”). In alcuni casi l’effetto è quasi quello di una frantumazione controllata, una sorta di tensione per contrari che genera una sensazione straniante e destabilizzante, acuita dalla ripetizione (spesso in apertura e chiusura) di frasi il cui significato viene mutato in modo quasi sotterraneo ma decisivo: “Attraverso tutte le porte, allo stesso tempo, / si riversano nella stanza / gli odori del passato.// ….. // Quando esci, esci / attraverso tutte le porte allo stesso tempo”, scrive ad esempio in Agosto.
In questa come in altre poesie vengono oltrepassati i confini che separano l’uomo dalle cose, dalle sue cose, e gli oggetti diventano capaci di dare corpo agli stati d’animo, diventando una sorta di alter-ego con cui non è facile rapportarsi (“Dalla dispensa già si sente / il cattivo odore dei ricordi, / il caffè si raffredda.”), fino al caso limite in cui l’uomo si trasforma in carta da parati “che qualcuno laverà”. L’effetto di capovolgimento e compenetrazione, che può sfiorare i limiti dell’iperbolico o dell’assurdo, si traduce anche in un bisogno di trasformazione e cambiamento, che è cambiamento delle cose e contemporaneamente di noi stessi. E’ una metamorfosi che a volte rimane sottotraccia, costante, come senso di necessità per opporsi a un dolore che talora è evidente e dichiarato (“Gettato via, in una strada non sua, / ansima un passo incerto. / Nell’occipite duole, / ma non so per cosa. / Solo la strada, solo quella davanti a me”), ma che più spesso viene solo evocato per una sorta di sottrazione; altrove, invece, la stessa metamorfosi sembra compiersi apertamente come atto, e penso a poesie come La casa o Il cappotto a scaglie.
Un uomo che cambia dunque nel tempo, quel tempo così presente da diventare padrone della scena, sfondo e sostanza, sia quando è attesa su cui si fissano oggetti e persone ( “Impassibili facciate / del passato, // in mezzo noi due / nell’attesa del meriggio” ), sia quando mescola le stagioni della vita e apparentemente le unifica. “Potresti fermare il tempo / se comprendessi la relazione / tra lo sguardo e l’atto, / ma tra l’esitante congetturare / il giorno era già penetrato con vigore / in tutti gli angoli della casa”, e subito dopo “sei una diga nel deserto / che ogni giorno dimentica / il volto del giorno prima”: il tempo non è possesso dell’uomo, sembra suggerire Miljana Cunta, piuttosto l’uomo è possesso del tempo: solo accettando questo può cambiare in esso e salpare nel tempo, forse in qualche modo appartenervi.

Slovena, nata nel 1976, dopo la laurea in Letteratura Comparata e Inglese ha conseguito in Master sulla Poesia inglese nel periodo vittoriano presso l’Università di Lubiana. Si è occupata di organizzazione culturale, traduzione e lessicografia. Dal 2006 al 2009 ha diretto il programma del Festival Internazionale di Letteratura di Vilenica. Sue poesie sono apparse sulle riviste “Sodobnost”, “Nova revija”, “Lirikon”, “Poetikon”, “Zvon”, nonché sulla croata “Tema”, e sono state trasmesse in radio per i Notturni letterari. Premiata al Concorso Letterario Giovani, vive tra Sempeter, vicino al confine italo-sloveno, e Lubiana. Ha riscosso un notevole successo, di pubblico e critica, con il suo primo libro, Za pol neba (Per metà del cielo), edito nel 2010 dalle edizioni Beletrina di Lubiana, e ha ricevuto le nomination per il Premio Veronika e il Premio Jenko.
Le poesie che seguono sono tratte da questo libro, una cui ampia selezione è stata edita in plaquette dalle edizioni Beletrina nella traduzione di Michele Obit.

Impressione romana (Rimska impresija)

Noli me tangere

sta scritto sotto l’immagine
nella chiesa, dove la memoria
volge all’inizio.
Sulla soglia

della porta d’entrata
la luce fragile si riversa
sulla fronte
pur toccando, poi,

la fredda pelle.
Lo sbattere d’ali
di un nugolo di piccioni
sopra Piazza Navona
in alto, ancor di più,
trafigge il cielo

e si riversa il mattino.
La piazza lavata si fa rotonda
attorno alla fontana
e tutto è acqua

che scorre.
Impassibili facciate
del passato,
in mezzo noi due

nell’attesa del meriggio.

La porta (Vrata)

Nulla che rimanga
quando sbatti la porta.

Dentro è fuori
e fuori è notte.
Rigida è
l’attesa del battere,
sprofondato nello stoino
sta il passo.
Dalla dispensa già si sente
il cattivo odore dei ricordi,
il caffè si raffredda.
La porta pesante al centro della parete
taglia a metà:
il corpo, che si annida,
ed il pensiero, che vola via.
Sulla parete ad alta voce tace
il tempo trattenuto.

Nulla rimane
quando sbatti la porta.
Fuori è dentro
e dentro è notte.

La casa (Hiša)

Quando mi chino sulla tua anima, mentre dormi,
e ascolto…
Juan Ramón Jiménez

Mentre dormi demolisco la nostra casa
perché so: per costruirla, demoliscila tre volte.

La prima distruzione fa male.
Strati su strati di mattoni fatti di foglie rosse
invitano ad abbandonarti nell’abbraccio dell’autunno.
Nella seconda distruzione sussuriamo
che fa lo stesso,
che prima del quieto riposo
dei giochi impolverati in soffitta
non c’era stata infanzia.
I muri sono il presagio degli sguardi murati
e non vi è fuoco che disegni i coniglietti sul letto.
Nella terza distruzione della casa
soffia il vento da ogni dove,
i rami imbizzarriti dei castagni sollevano i frutti
verso il sole rovente.
La terra brucia il proprio midollo,
rimette con eruzioni sulla superficie
la voluttà.
La selvaggina, occhio socchiuso della natura,
nel conforto dell’estate
si muove libera per il giardino fecondato.

Sullo stoino lavato della casa
i primi visitatori
si asciugano i piedi.

Camminando (Sprehod)

Lo sprofondare della rena.
Il calare delle nuvole.
Sempre più sottile è la linea d’orizzonte.
Nelle orecchie preme
come da un’improvviso declivio.

Gettato via, in una strada non sua,
ansima un passo incerto.
Nell’occipite duole,
ma non so per cosa.
Solo la strada, solo quella davanti a me.

Già avanzo al tuo ritmo:
sei ciò che sei, sono ciò che sei.

Davanti a me e dietro me il vento
cancella la traccia.

Un cappotto a scaglie (Luskast plašč)

La sera risciacquo il cappotto a scaglie:
e cade la mucillagine come la mano a terra
e cade come il giorno nella notte
e cade come nel sonno. Di sera.
Indosso il cappotto a scaglie:
e lega come un monile dorato
e taglia come uno scudo d’argento,
perciò lo tolgo, il cappotto a scaglie.
Quando mi hai dato questo cappotto a scaglie,
perché mi distenda davanti a te, dono del mare?
Quando infine mi toglierai il cappotto a scaglie
perché possa salpare nel mio tempo? La sera.


Agosto (Avgust)

Attraverso tutte le porte, allo stesso tempo,
si riversano nella stanza
gli odori del passato.

Con la lingua presa in prestito
ti affretti a pulire la polvere
dal letto del bambino,
dall’orsacchiotto di peluche,
dalla scarpetta rossa.
Nel dizionario preso in prestito
sfogli le parole
delle cose.
Con il dizionario preso in prestito
della lingua presa in prestito
soffi via la ragnatela
dalla putrida parete
perché si aprano all’improvviso le finestre
del mattino.
Buffamente interrato al centro
del ripostiglio in soffitta
perdi l’udito, s’ode il silenzio:
l’indoratura impolverata
del chiarore agostano
in ogni dove infine si disperde.

Quando esci, esci
attraverso tutte le porte allo stesso tempo.


Per metà del cielo (Za pol neba)

Ce ne stavamo come uccelli
sulle punte più alte
del ciliegio dei vicini, e la luce
si spargeva per le mani e oltre,
per i rami ed il tronco sino
a terra. Lungo il declivio sino al mare
cinguettavano le estenuate fantasie
per i giorni senza ore
che componevano come un prezioso gioiello
attorno ai colli abbronzati
imparando come l’ombra
si muove sempre con il sole.
Non chiudevamo le porte delle case
costruite con l’odore dei pini.
Ognuno con la propria chiave
che anche il mare apriva
sulla superficie riscaldata
perché cadessimo nella raffreddata profondità
come scimmie del circo
e tornassimo ogni volta impercettibilmente
più grandi.
Quando la sera consideravamo le conseguenze
del gioco, tacevamo
perché non avevamo parole
per il finale
che arriva sempre da lontano, è piccolo
come un puntino all’orizzonte
prima che diventi una nave,
grande, se la guardi da sotto in sù,

per metà del cielo.

Pensieri di carne (Misli mesa)

Le ossa si spezzano
quando entro in te.
Nell’aspirare si frantuma l’inspirare.
Dove, amore, si lacerano le membra
come i fiori
mi raccogli per le lenzuola del crepuscolo:
un ventre, perché tu possa placare la fronte,
due mani, perché possa domare lo sguardo,
tre dita per il silenzio
e quattro occhi per il sogno.
Quando t’addormenti nelle piaghe del desiderio
sono leggera come il respiro.
Pensieri di carne,
spezzati in gola,
nel sogno cantano un lamento
per l’assenza.

La finestra (Okno)

Solo desideravi
guardare attraverso la finestra
nel paesaggio dei mille colori,
non sopportavi già il silenzio della polvere
nei pori della vecchia poltrona.
Desideravi solo guardare
ma il telaio penetrava profondo nella parete,
ad ogni sguardo sempre di più.
Il fresco intonaco è caduto da solo
come un gruppo di ballerine in omaggio
al tuo stupore.
La cortina si è strappata lungo gli orli
e si è rotta nelle cuciture. Affrancata
si è abbandonata al vento.
Vasi di fiori uno dopo l’altro
si rovesciavano a terra.
Potresti fermare il tempo
se comprendessi la relazione
tra lo sguardo e l’atto,
ma tra l’esitante congetturare
il giorno era già penetrato con vigore
in tutti gli angoli della casa.
Il vento porta la sabbia nella tua dimora
e quando apri la bocca per urlare
sei una diga nel deserto
che ogni giorno dimentica
il volto del giorno prima.
Sotto le suole percepisci una verde lanugine
ed il chiarore estivo imperla il volto assonnato.
Con panico cerchi l’ombra nella nuda stanza,
un freddo riparo per i sensi alterati,
un angolo dove leggere libri,
una parete per la fotografia della persona amata.
Ma il giorno ha già spadroneggiato nei corridoi
della notte e nella sedicente luce
ti converte in una macchia nera
sulla superficie della carta da parati rovente
che qualcuno, al momento giusto,
con cura e precisione
laverà.



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