Ho da poco finito un libro che ha pagine scritte col tè. Le parole e i personaggi vi ondeggiano piano, cangianti, a rivoletti e gocce. Liquidi.
Il libro in questione è “Mille gru” di Yasunari Kawabata, di cui già mi è sfuggito un pezzettino qui, fortuita didascalia ai gesti intenti di un Cha no yu.
In questo libro gli esseri umani non vivono: fluttuano. Cuori e corpi si abbandonano all’ondeggiare dei sensi – piacere e dolore -, totalmente arresi alla corrente, sopraffatti. Si destano da questo torpore privo d’intenzione (o lo penetrano ancor più profondamente?) solo in certi attimi sospesi ed estatici, momenti in cui la natura svela sprazzi d’infinitamente dolce e irragionevole bellezza in cui essi scivolano interi e stupefatti (e noi con loro, fermi in equilibrio su una riga o due, fiato sospeso), senza opporre resistenza, diluendosi in un Tutto che li trascende, che li consegna ad una dimensione atemporale finalmente giusta, serena: un ramo di melograno che pende sulla veranda, un topolino che corre lungo una trave, il contorno netto delle chiome di un piccolo bosco al tramonto, la luce di un tardo meriggio d’estate filtrata dai petali bianchi di un oleandro; un lembo, un fruscìo, un bagliore. Un niente.
Il tè è l’indiscusso protagonista, o meglio, lo è il Cha do, la Via del tè: il viverci dentro e intorno, l’esserci immersi, presi come in una ragnatela d’innaturale perfezione, in quel rituale che respira e si gonfia fino a inglobare esistenze intere e imperfettissime, amori e morti, e anche il dopo, anche il dopo la morte: gli spiriti si fanno argilla smalto bambù, si mescolano alla schiuma di giada per rientrare, verdi, nei pensieri di chi ne berrà.
Il padiglione del tè diventa così un palcoscenico, una ribalta: inginocchiati sui tatami si cede all’illusione dell’amore, si freme di desiderio, si siede in frastornata solitudine attorniati da ciò che manca, e duole e spezza e smarrisce, mancando; o ci si affaccenda, solerti, pur di fuggire l’abisso (che spesso è nient’altro che nostalgia per la vita come l’avremmo voluta), o si imbastiscono bassi complotti, si sublimano piccole invidie e frustrazioni all’ombra delle maniche lunghe di un kimono.
Accovacciati in quello spazio scevro d’ambizione la preparazione del tè diventa quasi una cornice, entro la quale ci si getta tra le braccia l’uno dell’altro e si vacilla per troppa vita inespressa, o si sosta in ascolto di borbottii d’acque e braci, per un attimo quasi salvi, in contemplazione di ceramiche antiche di centinaia d’anni.
Perché gli oggetti, in questo libro, sembrano attraversare non solo secoli ma ere geologiche, come oracoli austeri detentori dell’assenza di ogni perché. La vita di un uomo al confronto è soffio, solletico di cui quasi non ci si accorge: come campanula infilata in un vaso antico, e subito appassita.
Gli utensili protagonisti della cerimonia del tè si fanno testimoni e complici di tenerezze e passioni contorte e clandestine, confusioni d’identità e sospiri di cui trattengono un moto come di flessione o brivido, che arriva fatto scossa alla pelle di chi, nuovo, le tiene. In questo dimora il loro vero valore, la loro malìa. E porgere una tazza è porgere un pezzetto di sé, sempre.
«Collocarono la Shino e la Karatsu l’una accanto all’altra. Kikuji e Fumiko si scambiarono uno sguardo fugace, poi i loro occhi si posarono sulle due coppe.
“A guardarle così, l’una di fianco all’altra, evocano l’immagine di un uomo e di una donna” disse Kikuji, un po’ emozionato.
Fumiko annuì. Si sarebbe detto che non le riuscisse di parlare; ma anche a Kikuji parve che quelle parole, da lui stesso pronunciate, implicassero stranamente un sottinteso quasi conturbante.
La coppa Karatsu non era decorata. Marcatamente rigonfia alla base, essa era di un color verde, qua e là soffuso di giallo zafferano e di carminio.
“Questa coppa era dunque tra quelle di vostro padre, se – come mi avete detto – era solito portarla in viaggio con sé” osservò Fumiko. “Essa, del resto, richiama vostro padre, nella sua austerà solidità”.
Fumiko non parve rendersi conto dell’allusiva gravità di queste parole. Kikuji, dal canto suo, non osò aggiungere che la coppa Shino pareva simboleggiare la signora Ota. Ma le due coppe, posate dinanzi a loro, erano le anime stesse del padre di Kikuji e della madre di Fumiko.
Le coppe, vecchie di tre, quattro secoli, apparivano splendenti e perfettamente integre. Non potevano suscitare che limpidi pensieri. Pure, il loro stato di conservazione era così perfetto, che sembravano vibrare di una loro vita segreta ed essere percorse da una vena di sensualità.
Agli occhi di Kikuji le due coppe incarnavano suo padre e la Ota, ed egli ebbe la sensazione di aver evocato, l’uno accanto all’altro, due spiriti sereni.»Yasunari Kawabata, “Mille gru”
Vi sono tazze, in questo libro, che sanno tutto; sanno così tanto che capita non ce la facciano più, e parlino. Tazze a cui si affidano messaggi vaghi e sempre equivocabili, coppe riempite di non-detto, non per reticenza ma per sprovvedutezza di sé e di quell’impasto di petali umori e pianto che si dice vita.
Tazze talvolta troppo strette anche per prepararvi agevolmente un tè. Tazze che sono persone, o anime. Tazze in frantumi.
«Kikuji lasciò cadere i frantumi che teneva fra le mani. Come si poteva tentare di ricomporre una coppa infranta, mentre in cielo brillava una stella così splendente?»
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… Forse vi parrà strano sapere che in verità io non so dire, proprio non so dire se questo libro mi sia piaciuto: è talmente impalpabile, inconsistente… So solo (ed è una consapevolezza che mi ha raggiunta piano, nei giorni seguenti al termine della lettura) che mi ha parlato di me più di quanto avrei voluto, e che mi ha lasciato una cauta necessità di leggere altro di Kawabata. A pensarci, trovo intonata questa sensazione incompiuta, soggetta a mutare con passi lenti, a sfuggirmi con la naturalezza lieve di un presentimento. Per me, tanto basta :-)
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I termini Shino e Karatsu, citati nel passo, identificano due distinte tipologie di ceramica giapponese.
Le ceramiche Shino, originarie della provincia di Mino e databili a partire dal tardo 16° secolo, sono caratterizzate da una spessa colata di smalto che ne ricopre l’intera superficie, talvolta crepato o segnato da piccoli “buchetti” per via della temperatura moderata a cui queste ceramiche vengono cotte, che fa sì che lo smalto possa non arrivare a fondersi uniformemente. L’argilla di cui sono fatte è solitamente bianca e a grana sottile; lo smalto Shino che la ricopre è composto principalmente da feldspato, un minerale presente nelle rocce eruttive, di colore più frequentemente bianco (tra le varie ipotesi sull’origine del nome “Shino” vi è appunto anche quella che lo vedrebbe come una corruzione di “shiro”, bianco in giapponese), ma che può tuttavia variare dal rosso al rosato al grigio, dando così vita ad esemplari di diverse sfumature. Ecco qui un esempio, e un altro. (fonte, fonte, fonte)
Le ceramiche Karatsu, sorte anch’esse nel 16° secolo e di derivazione coreana, prendono invece il nome dal luogo di presunta origine: Karatsu, appunto, nella prefettura di Saga. Le varianti di questo tipo di ceramica sono particolarmente numerose e differenziate tra loro, ma in generale risultano tutte accomunate da un aspetto robusto, essenziale, nient’affatto sofisticato: l’argilla impiegata, più sabbiosa e ricca in ferro, dona alle ceramiche una personalità “ruvida” e “vibrante”, in grado di trasmettere sensazioni di particolari solidità e naturalezza; per questo sono spesso citate come esempio nel descrivere l’estetica “wabi-sabi”, la bellezza irrisolta che nasce dall’imperfezione. Qui un esempio tra i più sobri, qui uno decorato (si noti la particolare forma “panciuta”, più stretta all’imboccatura, che accomuna gran parte delle ceramiche Karatsu). (fonte, fonte)