Il testo che Eva Cantarella dedica all’Amore nell’antica Roma si intitola “Dammi mille baci” ma, di baci, ve ne sono pochi. Gran parte rapporti affettivi, nell’impero romano, era impostato al conflitto: le persone dei ceti bassi potevano innamorarsi e scegliersi e, di solito, i loro rapporto funzionavano bene. Nel caso delle classi agiate no: il matrimonio era una questione di alleanze e spesso ci si sposava addirittura con parenti, pur di costruire una buona aggregazione. Il risultato? Le donne accettavano di tutto ma non sempre in silenzio e, sovente, era il caso di indurle a comportamenti virtuosi narrando loro le gesta di Cornelia (la madre dei Gracchi) o di Lucrezia (violentata dal figlio dell’ultimo re di Roma, Tarquinio il superbo). Ambedue queste donne misero la dignità del ruolo di moglie/madre al di sopra di ogni cosa. E così volevano che fossero, gli uomini romani, a proposito delle loro compagne di vita. In genere, con le dovute eccezioni e scappatelle (da ambo le parti), le cose ressero bene per secoli. Quando, poi, le donne divennero padrone del loro patrimonio, qualcosa cambiò: non si sposavano volentieri e, se potevano, lo evitavano del tutto. Anche in età avanzata si concedevano lussi e lussurie di ogni genere: quando potevano, entro le mura domestiche…quando ciò non era possibile, le matrone e le donne romane non esitavano a pagare prostituti, gladiatori e via dicendo. Anche i divorzi e gli aborti aumentarono, tanto che fu necessario varare delle leggi per ricondurle “all’ovile” ma tutti i senatoconsulti imperiali in materia restarono disattesi e, anzi, venero pubblicamente dileggiati (per protestare contro le leggi anti-adulterio, molte donne romane si iscrissero nei registri delle prostitute). Anche in ambito familiare, le cose non andavano meglio: un ragazzo, pur diventando adulto, non veniva mai emancipato dal padre e, quindi, per entrare in possesso dei suoi beni…spesso ricorreva al patricidio. Anche qui le varie terribili punizioni dissuasive, non cambiarono molto le cose. Sembra quasi che i romani avessero voluto, con le leggi, incanalare le passioni umane in un preciso registro ma questo non portò mai a nulla: il Cuore traccia la rotta e la mente segue sempre. Questo il senso delle belle poesie che, in calce al libro, l’adolescente Sulpicia dedica al suo bel Cerinto: quanti sospiri nel volersi concedere a lui anima e corpo con la paura, tuttavia, di apparire sfacciata.
“Ch’io non sia più, luce mia, il tuo folle amore
Come credo di essere stata ultimamente se, stolta, nella mia gioventù ho commesso
Una colpa di cui ti confesso di pentirmi di più
Che di averti lasciato solo, la notte scorsa, sperando di nascondere il mio ardore”