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Mirafiori

Creato il 02 novembre 2011 da Ilcasos @ilcasos

Giuseppe Berta, Mirafiori, Il Mulino, Bologna 1998. (sul sito de Il Mulino, puoi “sfogliare” l’e-book in anteprima, clicca qui)

MirafioriMirafiori rappresenta, come sostiene lo stesso Berta, il modello della grande industria che l’Italia ha inseguito dall’Unità fino agli anni Ottanta, decennio di grandi cambiamenti strutturali. È importante anche sottolineare la collana in cui si trova pubblicato dal Mulino, e cioè “L’identità italiana”. La quarta di copertina chiarisce meglio lo spirito della collana: «“L’identità italiana”. La nostra storia: gli uomini, le donne i luoghi, le idee, le cose che ci hanno fatti quello che siamo.» Ecco quindi che diventa quasi obbligatorio dedicare un volume a Mirafiori. Tutto ciò che è girato attorno a questa fabbrica ha direttamente o indirettamente segnato le vite di milioni di italiani, dal boom economico e i suoi stereotipi (la cinquecento e la seicento), alla conflittualità sociale. Il libro di Berta si suddivide in sei capitoli, ognuno dei quali riassume un decennio della vita della fabbrica dall’inaugurazione di Mussolini nel 1939 fino all’inizio della robotizzazione e del dominio tecnologico degli anni Novanta. Tutti decenni che caratterizzano non solo la storia di Mirafiori, ma quella più ampia dell’Italia. Berta riesce, infatti, a ricostruire quel microcosmo (nonostante le dimensioni della fabbrica, la più grande in Italia) di speranze, delusioni, odi, violenze e alienazione che un complesso industriale ampio e importante come Mirafiori ha provocato in centinaia di migliaia di persone che in quei quasi sessant’anni vi ha passato una parte considerevole della propria vita. Il libro si apre con l’inaugurazione della fabbrica da parte di Mussolini, inaugurazione tutt’altro che trionfale. Si legge infatti, «A Mussolini che domanda alla folla se essa si ricordi di quanto egli aveva detto agli operai di Milano (6 ottobre 1934), annunciando i capisaldi della politica corporativa del regime e le sue provvidenze sociali, non risponde alcuna ovazione di massa: quello che si percepisce è solo un attimo gelido di silenzio. Si spezza così il meccanismo che attiva la comunicazione carismatica fra l’oratore e la folla» (pp. 11-12).

La fabbrica passa quindi dagli anni drammatici della guerra, durante la quale non pochi operai ebbero parte attiva nel movimento resistenziale, a quelli della ricostruzione e delle decisioni politiche connesse all’adesione al patto atlantico e al piano Marshall. Si passa dalla gestione Valletta ai grandi piani di ristrutturazione che avrebbero dovuto portare alla produzione di massa. La fabbrica diventa contemporaneamente il centro della guerra fredda in Italia, ma anche il simbolo della motorizzazione di massa. Da questo momento cambia anche la struttura urbana di Torino, a causa dell’ingente quantità di manodopera immigrata, prevalentemente del Meridione, che, grazie alle opportunità lavorative che offre la fabbrica, si reca a Torino per entrare nell’ottica della catena di montaggio. È qui che Berta mostra come una nuova generazione di giovani operai entra nei cancelli di Mirafiori, generazione che subirà le contraddizioni del boom economico e che darà vita al cosiddetto “autunno caldo”.

Nei dieci anni che seguono il 1969, Mirafiori conoscerà un periodo di altissima conflittualità che giustamente Berta definisce in due capitoli come “la fabbrica del conflitto permanente” e “la fabbrica dell’eversione”. Tutti i gruppi della sinistra e dell’estrema sinistra si confrontano attorno a Mirafiori, da Lotta Continua ad Avanguardia Operaia, così come negli anni del terrorismo agiranno sia Prima Linea che le Brigate Rosse. Lo choc provocato invece dalla cosiddetta “marcia dei quarantamila” nell’ottobre del 1980 avrebbe causato una grande sconfitta del movimento operaio e con esso del sindacato più importante che agiva all’interno della fabbrica (la FIOM) e del Partito Comunista. Da questa crisi, le organizzazioni sindacali e partitiche che fino a quel momento si erano costituite proprio per dare voce alle rivendicazioni operaie, non si sarebbero più riprese, accumulando sconfitte e arrivando, come il Partito Comunista, all’autoscioglimento, derivato anche (e soprattutto) dalla caduta del Muro di Berlino e dalla fine delle utopie del socialismo reale sovietico. Con gli anni, come sostiene l’autore, Mirafiori diviene una fucina di idee, speranze e scontri, ma soprattutto stereotipi che ancora oggi è difficile rimuovere.

Il pregio del libro di Berta, come anche dell’Annale della Fondazione Feltrinelli (edito nel 1999 con un saggio dello stesso Berta), è quello non guardare al mondo operaio con la nostalgia per un ciclo di lotte irripetibile, ma con la voglia di riportare al centro della discussione il lavoro e i suoi cambiamenti.
Come si vede dalla lettura di Mirafiori, infatti, le condizioni lavorative e la struttura della macchina produttiva dipingono il volto della società (e delle città) e delle relazioni interpersonali tra le persone, linguaggio compreso. Un lavoro, quindi, destrutturato, smaterializzato, diventato quasi trascendente e che ha ribaltato la concezione tradizionale dell’alienazione lavorativa di stampo marxiana, che tipo di società va a strutturare?[1]
Questo è il compito degli studiosi militanti, ma soprattutto dei lavoratori, che ricomincino a parlare di sé e a pensare come lavoratori, e non più come imprenditori.

Note   (↵ returns to text)
  1.  Si badi bene che queste caratteristiche sono proprie dell’industria pesante nelle società occidentali. Nei paesi in via di sviluppo, in particolare nei BRIC, il numero di addetti alla catena di montaggio classicamente fordista, non è mai stato così alto.

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