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Miraggi di Bolivia

Creato il 07 settembre 2013 da Davideciaccia @FailCaffe

Ivana è partita per un lungo viaggio nel cuore del sud-America, oggi scrive di una Bolivia lontana dalle grandi città e dai luoghi comuni. Nel villaggio di Potosì per esempio, i minatori hanno disegnato secoli interi di storia sul viso e sulle mani

di Ivana Cucca

Se andrete a Potosì in Bolivia, potrete conoscere David che ha appena undici anni ma ha già lo sguardo di chi vuole cambiare le cose. Vende ai turisti piccoli pezzi di stagno e argento davanti all’ingresso di quella che, storicamente parlando, è stata la miniera più importante dell’America latina.

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Arriviamo sulla montagna  e  lui ci osserva da lontano,  poi si avvicina con fare sicuro proponendoci le sue pietre. Ha già imparato il mestiere del commerciante, ma il suo sogno è diventare medico: perchè a lui della miniera, non importa proprio nulla. Quando lo incontro dovrebbe essere a scuola, ma oggi il direttore l’ha chiusa per il freddo mi dice, sotto il sole enorme che illumina il “Cerro rico”. Decido di non comprare niente. David non dovrebbe stare lì e men che meno lavorare. Ci racconta che vive con sua nonna e sua zia a due passi dall’ingresso della montagna, e non è difficile immaginare che i suoi genitori  nella miniera ci abbiano perso la vita.

Nell’epoca di maggior prosperità di Potosì si narra che perfino le ferrature dei cavalli fossero d’oro.  In questa città la ricchezza estratta ha eretto chiese, splendide architetture civili e monasteri ancora oggi visitabili. La scoperta delle risorse della montagna è antecedente all’arrivo dei colonizzatori, ma gli Inca non commerciavano oro e argento al di fuori dei confini del paese: venivano estratti solo per essere offerti in dono agli dei.

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Le viscere di questa montagna, convertite in lingotti, hanno contribuito allo sviluppo europeo in maniera significativa. Per dare un’idea: la quantità d’argento trasportato in Spagna in un secolo e mezzo superava tre volte le riserve di tutta Europa. Nonostante qui persista un profonda antipatia verso la Spagna, è bene precisare che a beneficiare dell’attività estrattiva non fu la “madrepatria” che con la corona ipotecata si vedeva costretta a cedere tutto l’argento in eccesso a banchieri tedeschi, fiamminghi e genovesi. Di fatto gli spagnoli possedevano solo il 5% del commercio delle loro colonie. Secondo un censimento del 1573 la popolazione era di circa 120.000 abitanti, gli stessi di Londra, più di quelli di Roma o Madrid nella stessa epoca.  Nel 1650 Potosì contava 160.000 abitanti ed era ormai una delle città più importanti del mondo, aveva una fiorente attività artigianale e importava i migliori prodotti: le sete di Granada, i cappelli all’ultima moda di Londra e Parigi e le perle dall’India.

Nel XVIII secolo la scoperta di importanti giacimenti in Messico, sfruttabili a costi inferiori, arrecò un duro colpo al centro di Potosí, e agli inizi del XIX secolo, quando le miniere si esaurirono, la città contava solo 21.000 abitanti.

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Oggi Potosì è una città povera di uno dei Paesi più poveri del mondo. La ricchezza del passato sopravvive solamente nelle forme degli edifici e l’attività estrattiva è limitata allo stagno che gli spagnoli consideravano uno scarto. Le miniere sono gestite da cooperative di operai e se andrete a vederle non troverete alcuna tecnologia per l’estrazione: tutto è frutto dell’esperienza dei minatori.

Essere un “hombre minero” a Potosì è uno status che ti consente di avere, oltre ad alcuni privilegi, una vita disumana. Qui il mondo dei minatori è caratterizzato da alcune regole, la prima delle quali è che si può parlare della vita di miniera solo all’interno della montagna. Appena entriamo, lo spazio è talmente angusto che dopo dieci minuti alcuni chiedono di uscire. Dentro il tunnel siamo guidati da un ex operaio. E’ ben consapevole delle condizioni a cui sono costretti i suoi ex colleghi e ci riserva un trattamento distaccato: voi non sapete, voi non capite.

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Lo assecondiamo nella “tradizione” secondo cui i turisti devono portare dei doni agli operai che non interrompono il lavoro durante la visita degli esterni: succo di frutta, foglie di coca e alcol quasi puro. Appena arriviamo molti di loro sono seduti fuori: alcuni sono giovanissimi ma ciò che colpisce a prima vista è che tutti hanno una guancia gonfia. Non si tratta di un’infezione orale, forse l’unico problema di salute che qui manca, ma sono le decine di foglie di coca che i minatori masticano incessantemente, tutto il giorno. I volti segnati dei minatori e l’atteggiamento scorbutico e sostenuto di Jhonny (la guida) mi spingono a provocarlo: gli chiedo come mai le cooperative si ostinano a non assumere tecnici esperti e a non migliorare le condizioni di lavoro. Dopo qualche scusa, risponde che l’uso di tecnologie dimezzerebbe i posti di lavoro, e loro “che nemmeno sanno accendere un pc” non hanno intenzione di finire per strada.

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Nel cuore della miniera vige una gerarchia ben precisa: gli apprendisti, i compagni e i maestri, in pieno stile corporativo. Se l’ambiente della montagna è asfittico, le relazioni all’interno delle cooperative lo sono di più e il tempo degli operai è scandito dalla sequenza: lavora-mastica-sputa-bevi. Tra i privilegi di questa categoria, fiera di avere la gestione della cava senza un padrone, c’è quello di poter distribuire in modo autonomo le ore lavorative della settimana. Questo comporta che quasi sempre il venerdì, giorno in cui si arriva alla resa dei conti, trascorrano sul posto di lavoro ventiquattro ore.

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L’ingresso del tunnel è un varco carico di significati simbolici, è un limite netto tra l’ordine interno e il mondo che sta fuori. Nella montagna, si preservano credenze e riti legati alla religione precolombiana, in particolare quello di versare a terra qualche goccia d’alcol prima di bere, in onore della Pacha-mama (o Madre Terra) e quello di non fare lavorare le donne, perchè la divinità femminile ne sarebbe gelosa. Nei 500 anni di lavoro nel centro minerario sono nate e si sono tramandate anche altre tradizioni. Alla fine della galleria, in un ambiente nascosto, è stato scolpito nella roccia un diavolo che gli operai venerano e festeggiano ogni venerdì. Questa credenza si contrappone in modo netto alla religione cattolica, destinata  invece a chi sta fuori.

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Nelle viscere del “cerro” nessuno dei visitanti può sentirsi troppo a suo agio e l’esperienza è emozionalmente molto forte. Infondere paura nei turisti è per questi uomini un piccolo riscatto, oltre che un divertente passatempo, e se le “storie di paura” della guida mi hanno fatto sorridere inizialmente, ciò che è successo dopo mi ha invece terrorizzato. Mentre la guida camminava senza aspettarci,  uno degli operai che lavorava sopra di noi  ha scaricato del materiale di risulta in uno spazio chiuso accanto al nostro: è stato come se la montagna mi stesse crollando addosso.

Dopo un’ora e mezza di visita ci avviamo verso l’uscita. Alla fine del tunnel l’aria è ferma, ma dopo interminabili momenti dentro la montagna si ha l’impressione che il vento stia soffiando forte. La prima immagine che vedo è quella di David che gioca con la corda: è lui la ventata d’aria fresca. Gli vado incontro e iniziamo la gara a chi per primo fa cento salti. Sono affaticata perchè abituata al respiro corto a cui ti costringe un ambiente chiuso, ma giocare con lui è lo sfogo migliore dopo l’asfissia della montagna.

Il tour è finito.  Salgo sull’autobus che mi porterà in centro. Partiamo ma subito dopo ci fermiamo: c’è una macchina ferma davanti a noi. David ne approfitta, salta sull’autobus, mi mette un pezzo di stagno nella mano e scappa via.

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Nota: La fonte sul passato di Potosì è il libro “Las vienas abiertas del America latina” di Eduardo Galiano: consigliato per chi vuole leggere la storia di questo continente, con lo sguardo di chi non ha vinto, ancora.


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