Magazine Diario personale

Miserabili 2.0

Da Bibolotty

Oggi è il mio compleanno e ieri è uscito il mio primo romanzo. La mia felicità, dunque, dovrebbe e potrebbe essere completa, ma così non è, e a meno che non mi capiti un grosso colpo di fortuna, alla quale però non credo e che comunque, sin qui, non mi ha mai regalato niente, la mia situazione non potrà cambiare.
Comunque, Big Giove è entrato nei gemelli della terza decade soltanto due giorni fa e allora, poiché non ho niente da perdere, scrivo questa lettera aperta affinché le Banche la finiscano con questa persecuzione.
Sono fallita nel 2007.
Non vi starò a raccontare il perché e il come, non ho memoria per le date, e poi la mia storia l’ho già trasfigurata e distillata nella vita di un altro, nell’esistenza di un personaggio diverso da me e che mi auguro sarà in grado, al più presto, di raccontarsi attraverso le pagine di un romanzo.
Non posso dirvi che cosa è successo a Elena in quegli anni. Nemmeno sono capace di riassumere in poche righe quali e quante siano state le ingenuità e gli errori che hanno trasformato il più bello dei sogni nel più spaventoso degli incubi. Non ho voglia neppure di riassumere in tre parole la quantità di ore perse nelle sale d’aspetto delle varie e inutili associazioni di categoria, che non sono state in grado nemmeno di indicarmi la strada per uscire dal paradosso nel quale la mia esistenza era stata gettata. Non vale la pena puntare il dito contro la sordità della politica, o raccontare per filo e per segno di come Comune, Regione e Provincia, non siano stati in grado, e non abbiano voluto, nonostante avessi trovato un importante finanziatore, affidarmi una sede scalcagnata da rimettere a posto e a disposizione della comunità. Inutile rivangare il passato andando a ripescare la mia “Lettera di resistenza imprenditoriale” che nel 2006 mi fece arrivare alla segreteria di Bertinotti, allora Presidente della Camera, e che si risolse in un nulla di fatto. La pena di svegliarsi a poco più di trent’anni con l’incubo del protesto, del distacco della luce e dei brutti musi (giustificati) di chi mi lavorava accanto, è qualcosa che ho già delegato a Paolo Moretti, il mio protagonista, affinché questa brutta storia si allontanasse da me prendendo un’altra forma e un altro finale.
Sono fallita, e anziché limitare la mia responsabilità alla srl, ho voluto pagare gli amici che avevano lavorato per me, vendendo l’attico in centro che mia madre mi aveva regalato. Conclusa la vendita, avrei potuto –la legge me lo consentiva- pagare solo i debiti legati ai fidi sulla casa e con il rimanente comprarmi un’altra proprietà, sempre in centro, per ricominciare una nuova vita. Invece, per onestà, e poiché credo sia fondamentale pagare in vita i propri creditori, ho fatto fuori tutto il capitale saldando ognuno almeno per la metà del debito: onesti saldo e stralcio.
Così, in un mattino di Luglio mi recai all’Eur per firmare tre assegni dell’ammontare di circa quattrocentomila euro (la cifra non è esatta e forse anche maggiore) al distinto Manager in cravatta il quale poi, mi consegnò una quietanza.
Ero felice. Avevo eliminato l’ipotesi di avere ancora una volta qualsiasi rapporto con un Istituto di credito. D’altra parte anche le banche sono aziende, non Istituti di carità.
Così sono rinata a nuova vita. Il lavoro in Luiss, la scrittura, un nuovo amore, una nuova via da percorrere.
Ma un mattino di ottobre di due anni fa, quando di nuovo ero senza occupazione, vedo arrivare nella nebbia del mattino, e sotto una pioggia sottile, due ufficiali giudiziari con una cartolina azzurra tra le mani.
E chi se la ricordava più quella maledetta fideiussione.
L’avevo firmata appena entrata nella mia microazienda alla fine del 1999. L’avevamo firmata in tre, perfettamente consapevoli e così ottimisti da non pensarci nemmeno più. Poi, passati alcuni anni, non ci ho pensato più perché così presa dal parare i colpi giornalieri, troppi e sempre più gravi, gli avvisi dell’istituto di Credito mi sembravano l’ultimo dei problemi. Rimandavo, come tutti rimandiamo di fronte alla Segretaria cui pagare la tredicesima e il fornitore della carta per le stampanti. Ma questi sono meccanismi che soltanto chi ha un’impresa può conoscere, capire e giustificare.
Ho fatto opposizione al decreto ingiuntivo. L’ho fatta perché mi sono ingenuamente domandata come mai, quel giorno, il ligio Manager non mi avesse fatto presente anche di quel vecchio debituccio dimenticato. Avrebbe potuto dirmi, poiché sapeva che l’azienda stava fallendo, di saldare anche quella cifra, tra l’altro irrisoria in confronto agli assegni appena firmati, un saldo e stralcio di diecimila euro e la mia vita ora filerebbe liscia.
Invece no.
Il debito ha continuato ad accumulare interessi.
Quando ho cercato una mediazione, proponendo loro un pagamento rateale minimo mi hanno proposto, ovviamente, un piano di rientro impossibile. O una finanziaria e un saldo e stralcio altissimo oppure niente. Oppure si procede. Si procede a cosa?
A parte i cerchietti che porto alle orecchie e un piccolo anello, ho venduto ogni altro bene, per pagare l’avvocato, s’intende, perché almeno cinquecento euro a udienza glieli devi dare. I mobili anche, antichi e di famiglia, li ho svenduti al prezzo di niente perché non potevo permettermi un magazzino e perché in casa del mio compagno non avrebbero trovato posto.
Mi rimangono i libri, e basta.
Nemmeno i miserabili di Victor Hugo, Signore e Signori, nemmeno quando c’era la galera per debiti, si procedeva verso chi aveva onestamente dato fondo a ogni bene per pagare i propri debiti.
O forse succede perché per me il denaro non ha mai avuto una grande importanza, perché per me il denaro è niente anzi, è il peggio.
Ora vi chiederete il perché di questo post così scandalosamente personale.
Perché sono incazzata nera, e non sono la sola a vivere una situazione di “pignoramento mobiliare” del nulla. Perché vorrei che questo post, questa confessione amara e questa ulteriore pubblica umiliazione, andasse in giro come emblema della situazione di tanti.
Perché tra qualche giorno i due ufficiali giudiziari si ripresenteranno in una casa che non è mia, rischiando di far crollare anche la sola certezza che mi rimane: quella di potermi svegliare con serenità e a mente sgombra per scrivere delle storie. Perché questo incubo, che porterà comunque a un nulla di fatto, mi toglie il sonno e la voglia di andare avanti, di affermarmi, magari, e di poterli saldare, finalmente, e in monete da un euro.
Ma le Banche italiane sono sorde e cieche.
Diversamente dagli istituti di credito di altre nazioni non si domandano mai come aiutare qualcuno a pagare il proprio debito: non ci aiutano a crescere, ma a fallire. Ma su questo ci ho scritto una storia di duecento pagine, e tanto basta.
Scrivo e pubblico questo post perché l’Unicredit, dopo il mio Tweet di stamattina, è venuto già due volte sul BLOG per leggere di cosa si trattava: si tratta che o mi mettete in galera o non vi posso saldare.
Scrivo questo post perché capiti nelle mani di qualche politico di buona volontà, che assieme ad altri e in nome degli aiuti dati dallo Stato (ossia da noi) alle Banche, decidano di proporre un disegno di legge che blocchi o che congeli, non dico cartolarizzi, i debiti di chi come me è un imprenditore fallito e non ha né una prima né una seconda casa e neppure un conto corrente bancario. Domando che almeno per le aziende fallite si abbia un po’ di riguardo, che gli istituti di Debito la finiscano di cercare di cavare sangue dalle rape. Le ragioni sono infinite, a partire dalle spese giudiziarie che per ogni causa come la mia, per ogni impugnazione fatta per prendere tempo e cercare soldi, corrispondono una marea di quattrini e di tempo buttati.
Scrivo questo post perché pretendo che la mia felicità sia completa.
Ma siamo dei Miserabili 2.0.
E adesso venite a pignorare il niente che mi rimane.


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