Miuccia Prada sprona Milano - LaRepubblica.it
Creato il 01 agosto 2012 da Arianna
riporto un articolo che vale la pena leggere pubblicato su laRepubblica.it:
Prada: Milano, attenta la moda fugge a Parigi / Miuccia Prada 'La moda glamour dice addio a Milano e trasloca a Parigi'
AL GRANDE chiacchiericcio che risuona a vuoto nei templi già rumorosi delle sfilate milanesi, piccole invidie, grandi frecciate, autoesaltazioni, terrori e pomposità, Miuccia Prada non partecipa mai. Ha molte cose da dire, ma non in quel momento in cui il lavoro di mesi, la fatica di mesi, la concentrazione di pensieri e idee, diventa spettacolo, gratificazione, immagine concretae globale di una fantasia, di un impegno, di una visione. «La moda è il mio lavoro e lo faccio con p a s s i o n e , ma è anche il mezzo finanziario che mi permette di dedicare tempo ed energie anche a quanto conta molto per me, cioè l' arte e la nostra Fondazione. La moda da sola oggi non è in grado di imporsi, per farlo deve muoversi dentro un sistema della cultura e dell' arte che funzioni, in un clima sociale che la sostenga. Ma noi viviamo in un mondo culturale debole, siamo un Paese che non ha mai voluto o saputo proteggere e promuovere il suo immenso patrimonio artistico e paesaggistico». In questo campo lei ha dei suggerimenti da dare a chi in questo momento ha delle responsabilità non solo politiche e finanziarie, ma anche appunto culturali e sociali? «Mi rifiuto di esprimermi pubblicamente, perché mi pare di essere autorizzata a parlare solo di moda e dei soldi che la moda procura. Proteggo la mia dignità esprimendo solo suggerimenti privati, se me li chiedono, stando ben attenta a non fare l' opinionista. Non voglio comparire, mettermi in primo piano, non lo faccio neanche alle sfilate. Cerco di parlare solo degli argomenti che credo di conoscere bene. Per il resto si tratta di intuizioni, come capita per le mostre della Fondazione Prada. Posso anche avere delle idee precise, ma per serietà e rispetto del contesto, le discuto sempre con un gruppo di persone di indiscussa professionalità». Provi comunquea dire la sua, come se ad ascoltarla non ci fossero i "professori", quelli invece autorizzati sempre a esprimere e imporre il loro dotto pensiero. «Percepisco ancora nel pensiero di una certa sinistra e di certi intellettuali una grande diffidenza verso la ricchezza, verso quel glamour che oggi viene dal denaro, dal potere anche mercantile che il denaro dà. Lo capisco, ma anche la cultura la si organizza col denaro, e così l' arte, e anche la moda. Per esempio non vorrei più sentirmi in colpa perché invece di pensare a più gravi problemi nel mondo investo in mostre per la nostra Fondazione, e lavoro per lo spazio permanente che si inaugurerà a Milano tra due anni e per il quale stiamo lavorando da molto tempo. Ma se la ricchezza e il mondo che gira attorno alla ricchezza sono una colpa, allora che la sinistra faccia una riflessione vera su quale scelta politica e culturale vuole fare, e avere il coraggio di farla: se puntare allo sviluppo, all' Europa, alla globalizzazione, oppure a un altro modello di società ugualmente accettabile, che dovrebbe essere egemone. E che a me andrebbe anche bene. In fondo abbiamo già avuto il ' 68». Tornando alla moda, pare che nella tempesta del nostro paese, non vada affatto male. Il settore globale dell' abbigliamento ha toccato, 83.118 milioni di euro, nel 2011, quasi 10 milioni in più dell' anno precedente, si è importato, ma anche esportato di più. Soprattutto il settore della pelletteria, a causa della irrefrenabile passione femminile per le borse, cresce ed assume: in un anno il fatturato è aumentato del 18,8%, l' importazione dell' 11% l' esportazione del 30,4%. «Il problema per noi italiani non è questo. L' Italia è il paese numero uno per la produzione di eccellenza, anche per quella francese e di altri mercati internazionali, ma con la vendita agli stranieri dei nostri marchi del lusso, è tutto il nostro sistema moda che rischia di diventare di serie B, dopo essere stato forse il primo, e di trasformare i nostri lavoratori e le nostre aziende in façonisti (produttori per conto terzi) di qualità. Perché se i marchi passano i confini, il merito, il glamour, la fama e le decisioni che contano le fanno altri, noi veniamo abbandonati, declassati. Infatti i grandi creativi che vengono dalle scuole più importanti, hanno cominciato a snobbarci e scelgono Parigi. Non si può dar loro torto. Per esempio quando Ralph Simons lavorava qui, da Jil Sander, era già molto considerato, ma andando a Parigi, da Dior, il suo valore sarà ulteriormente enfatizzato. Di questo incolpa in parte anche l' informazione? «È un ritornello. In Italia la stampa non ci prende sul serio, ci usa come simbolo di frivolezza, ci rappresenta sempre con nudità, come richiamo erotico, non fa un' analisi sul senso più profondo e migliore della moda, sulle energie che richiama, sulle connessioni che crea con altri mondi come quelli del cinema, dell' architettura, dell' arte, sulla sua grande vitalità, oltre che sulla forza lavoro che occupa e sui grandissimi fatturati che genera. Gli altri settori industriali sono rispettati, il nostro no, anche quando funziona ed esporta in tutto il mondo, e arricchisce il Paese. Eppure il made in Italy ha ancora un peso nel mondo. «Il made in Italy non basta più, è un concetto di retroguardia che solo in parte contribuisce al successo di un prodotto. Anche perché l' impressione percepita all' estero è che tutto il sistemapaese stia tramontando, abbia sempre meno risorse, meno cultura, meno protagonisti, meno idee, meno vitalità e meno denaro. Se un paese perde ogni attrattiva, la moda va altrove, cerca il meglio, dove sa di poter avere successo sotto gli occhi di tutto il mondo che conta. In cerca di quell' attrazione che passa sotto il nome di glamour, anch' io ho scelto Parigi per le sfilate della collezione Miu Miu». Eppure ci sono stati anni affascinanti in cui per le sfilate di Milano arrivavano estasiati da tutto il mondo. C' era un clima molto avventuroso, sorprendente, opulento, c' erano le sfide Armani-Versace, Ford-Prada, c' erano feste raffinate, voglia di vivere, modelle di bellezza mai vista, un' idea di ricchezza e di piacere che rendeva la moda italiana unica, imperdibile. I tempi sono molto cambiati, è cambiata l' Italia, sono cambiati il mondo, la moda, le modelle, Milano. Forse non è più tempo di sfilate? «Al contrario: le sfilate sono un momento fondamentale, F sempre più indispensabile, che raggiunge in diretta tutto il mondo. Sono uno spettacolo globale, un momento di teatro, sempre più costoso, sempre più imponente e fantasioso. Per questo ormai se le possono permettere solo i grandi gruppi finanziari che si sono impossessati del mercato del lusso, e poi qualche marchio particolarmente forte. Ma sarebbe importante che ogni volta ci fossero nuovi talenti, giovani sempre più bravi, che sappiano rinnovare, stupire, entusiasmare come negli anni belli della nostra moda». In che modo le sfilate milanesi, la nostra moda, potrebbero riconquistare una specie di egemonia? «Non solo non ci sono soldi, ma non si sa neanche convincere chi li ha,e sono tanti in giro per il mondo, a investire in progetti culturali necessari anche per la vitalità della moda, che non può vivere isolata, ma ha bisogno di far parte di un sistema integrato. È difficile in questo momento mettere in campo idee che attraggano, ma è solo con le idee che si può vincere. Le idee, volendo, costano anche poco, basta mettere insieme i migliori curatori d' arte, filosofi, sociologi, pensatori di ogni genere che, avendo a disposizione la ricchezza della loro intelligenza e il nostro immenso patrimonio artistico, creino sorprese tanto dirompenti da rendere indispensabile esserci». È vero che come italiani siamo scomparsi dagli elenchi di eccellenza dei giornali stranieri, non ci siamo quasi mai tra i cento personaggi che contano in varie discipline, non perché non ve ne siano ma perché ci dimenticano, non siamo più interessanti. Ma intanto, cosa si potrebbe fare a Milano e non solo per la moda? «Per esempio il Castello Sforzesco, di cui finalmente si parla, è pieno di tesori sconosciuti anchea molti milanesi. Perché non valorizzarli creando mostre o altro di grande impatto popolare, che non devono necessariamente essere alla Disneyland e volgari, ma che possano essere così interessanti da non poterli perdere? Molti intellettuali italiani hanno ragione ad essere rigorosi, rifiutano ogni ipotesi di commistione commerciale per proteggere il nostro patrimonio, forse non amano i grandi numeri e temono il grande pubblico. Ma se si rifiuta di cavalcare questo tipo di modernità se non marginalmente, allora bisogna inventare un altro sistema di attrazione più intelligente e sofisticato: bisogna almeno provarci. I campanelli d' allarme ormai ci frastornano e non bisognerebbe perdere tempo».
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