12 ottobre: una città, tre cortei e i soliti, affezionati stereotipi. Nel giorno in cui la Lega ha diviso Torino, la stampa convenzionale non ha saputo raccontare chi e perchè era lì a manifestare.
di Giada Di Giovanni
Sabato pomeriggio Torino ha fatto da palcoscenico a un inconsueto e variegato fluire di manifestanti, scesi in piazza per prendere posizione rispetto a questioni diverse, ma tutte di grande attualità: immigrazione e razzismo, grandi opere e lotta allo sfruttamento disumanizzante dei territori. Tre, in tutto, i cortei che si sono snodati attraverso le strade del centro storico: la manifestazione congiunta delle varie realtà di lotta attive sul territorio torinese, la “manifestazione nazionale per la legalità”, voluta dai big del Carroccio, e il corteo antirazzista organizzato in opposizione all’appuntamento della Lega Nord.
Il primo spezzone si è mosso alle 14:30 da Porta Susa: il coordinamento torinese “Unire le lotte” – che porta insieme il comitato NO TAV Torino e cintura, il coordinamento cittadino di opposizione all’inceneritore di Grugliasco, il comitato NO MUOS Torino, gli operai della CUB e il movimento “Salviamo il paesaggio” – ha scelto di aderire alla giornata nazionale delle realtà in lotta con uno striscione lungo circa 50 metri: un serpentone colorato che si è aggirato per le vie che congiungono la stazione con Piazza Castello passando attraverso Piazza Statuto, il mercato di Corso Palestro, via Garibaldi e le bancarelle di Porta Palazzo. Un’iniziativa mirata a porre l’accento sull’importanza del fare rete per confrontarsi, acquisire maggiore visibilità e voce in capitolo davanti agli interlocutori – istituzionali e non – e individuare degli orizzonti comuni verso cui far convergere pratiche e azioni che, benché mosse da ragioni diverse, interpretano lo stesso bisogno: promuovere una visione del vivere in società improntata a maggiore umanità e rispetto del territorio, che anteponga le esigenze delle popolazioni locali agli interessi legati alla realizzazione delle grandi opere.
Attratta dalla gran quantità di fazzoletti verde fluo e di bandiere trionfanti che da Piazza Castello mi si prospettavano all’orizzonte, ho deciso di “infiltrarmi” nel terzo corteo, quello della gente che lavùra e che è stanca del fatto che “Kyenge, Bodrini, PD e grillini vogliono bene solo ai clandestini!” (slogan che, diciamolo, ha vinto tutto). Tra un Cota che aizzava la folla contro il criminale magrebino che ogni giorno arriva a minacciare la nostra sicurezza e a privarci del lavoro, e un Calderoli che si pavoneggiava per aver partorito la geniale idea del sostituire la parola “migranti” con “ignoranti briganti”, il mio stomaco è riuscito a tener botta fino al fatale colpo basso del “SECESSIONE, SECESSIONE!!”, che ha infiammato le ugole dei presenti in un atto di catarsi collettiva, costringendomi alla ritirata.
Mi ricongiungo al corteo di “Unire le lotte”, che intanto si era stabilizzato su corso Vittorio a livello di Porta Nuova, in modo da formare un cordone che è andato ad inspessire quello delle forze dell’ordine, ancora lì a blindare il tratto stazione – piazza San Carlo in attesa della ritirata del corteo della Lega. Intanto lo spezzone antirazzista continuava il suo percorso attraverso piazza Sabotino, Corso Re Umberto, Corso Vittorio e poi giù per San Salvario. È su via Madama che, a quanto pare, si sono vissuti i momenti più “caldi”, con tanto di lancio di lacrimogeni e momenti di scontro frontale polizia-manifestanti che hanno portato al fermo di tre persone. Infine, verso le 20 di sera, alla ritirata del ‘corteo verde’ si è avuto l’ultimo momento di contatto tra gli spezzoni: prima che i leghisti scomparissero sugli autobus che li avrebbero riportati indietro, un ultimo scambio di “Assassini” e “Siamo tutti clandestini” da una parte e “Andate a lavurà” dall’altra e poi tutti a casa, fine dei giochi.
Insomma, una giornata intensa quella che si è vissuta per le vie di Torino sabato pomeriggio. Per quel che mi riguarda, stanca e infreddolita com’ero la sera stessa, non sono stata lì a cercare di tirar le somme della giornata appena vissuta. Avevo solo bisogno di mangiarci e dormirci su. L’indomani, però, il primo pensiero è stato quello di andare a vedere che se ne era detto e scritto, a quale tipo di narrazione degli eventi i giornali avessero scelto di far spazio. Nessuna sorpresa. Non che sperassi di imbattermi in articoli pieni di pathos o traboccanti di spirito critico – sia mai! – ma devo dire di aver provato una frustrazione più grossa di quel che mi attendevo nel leggere i resoconti della stampa ufficiale: a Repubblica.it va il premio per la sintesi (le dinamiche dell’intera giornata in ben tre righe e uno spezzone – il nostro – inesistente); al Corriere.it e a La Stampa.it invece, bisogna riconoscere lo sforzo creativo della scelta del poliziesco: dopo la lunga sfilza di “antagonisti”, “tensioni”, “cariche”, “lanci”, “lacrimogeni” e “bombe carta” mi son chiesta come fosse stato possibile aver vissuto l’apocalisse e non essermi accorta di nulla.
Guardandomi intorno, l’altro giorno, incrociavo sguardi che esprimevano una domanda di senso e di umanità cui non viene mai resa giustizia nelle narrazioni dei nostri giornalisti da scrivania. Eventi continuamente appiattiti su sterili stereotipi, per cui oramai la protesta si è configurata nell’immaginario comune come il solito teatrino in cui degli anarco-insurrezionalisti, non avendoci di meglio da fare, si divertono a trascorrere interi pomeriggi a sclerare contro dei muti robocop che – checché se ne voglia dire – non fanno altro che il loro lavoro. Va da sé che, se l’informazione per prima rappresenta i diversi gruppi come dei blocchi uniformi e informi, è comprensibile – anche se non giustificabile – che ci si ritrovi per strada a confrontarsi (?) come tali, a urlarsi slogan in maniera completamente sterile e autoreferenziale, in una sovrapposizione quasi autistica di interminabili monologhi. Questa, insomma, è la cosa che più mi urta quando penso alle dinamiche che spesso prendono forma nel corso di cortei e manifestazioni di ogni sorta: la sensazione che la distanza mentale tra i gruppi coinvolti sia inversamente proporzionale a quella fisica, in un modo che fa sì che la vera resistenza che ha luogo sia quella delle idee, che non riescono a trovare un’arena in cui confrontarsi e – ben venga – scontrarsi.
Anche in questo senso, è necessario che i diversi gruppi escano dall’isolamento e si sforzino di individuare degli obiettivi comuni, trasversali alle specifiche appartenenze e agli interessi particolaristici. In tutto ciò, la cosa certa è che se i politici tornassero a fare politica, avremmo già risolto un po’ di problemi.