All'arrivo di
Geelong, poco dopo il traguardo, le facce e le espressioni dei corridori si mescolano in un insieme di istantanee che riassumono al meglio i 257 intensi km del Mondiale di Melbourne 2010. C'è la faccia entusiasta e incredula di
Thor Hushovd, che grazie ad un'accelerata lampo negli ultmi 200 metri si è appena laureato campione del mondo. C'è la delusione e la rabbia sul volto di
Matti Breschel, il danese picchia più volte il pugno sul manubrio, consapevole che mancava davvero poco per realizzare il sogno di una vita e che il rimpianto di questo secondo posto lo terrà dentro forse per sempre. C'è il sorriso di circostanza di
Allan Davis, che coglie una medaglia di bronzo in casa propria, ma che per qualche notte si chiederà se visto il finale avrebbe potuto raccogliere di più. C'è poi la smorfia di fatica di
Cadel Evans e
Philippe Gilbert, autori di un'ottima corsa, mattatori che hanno dato il massimo: che purtroppo per loro stavolta non è bastato. Il primo ha lottato come un leone sulle strade di casa, cercando fino all'ultimo di non mollare quella maglia iridata che ha onorato per tutto il 2010. Il Belga invece era il favoritissimo di giornata e ha dimostrato di essere fortissimo, ha dato battaglia tanto che a 5 km dal traguardo sembrava avere l'iride in pugno; fin quando si è accorto che la solitudine non lo avrebbe portato lontano mentre il gruppo lo inseguiva a tutta velocità, in un tratto finale che lo ha tradito. Si intravede anche
Oscar Freire, lo spagnolo che non si è mai visto e non ha sprintato, ma nonostante questo si è piazzato sesto. L'uomo ombra non ha brillato, e simboleggia una Spagna spenta, apatica e temporeggiatrice; una nazione che avrà molto da riflettere per la propria condotta di gara che si aggiunge al polverone doping che sta investendo il movimento spagnolo per troppo tempo superficiale e omertoso.C'è poi il viso di
Pippo Pozzato, consapevole di aver appena sprecato l'occasione della vita. Il vicentino mastica amaro per quei pochi centimetri di rimpianto che lo hanno separato da una medaglia che l'Italia del ciclismo avrebbe meritato di cucirsi sul petto per come ha interpretato la corsa. L'Italia ha dato tutto; ha tirato, ha attacato cercando di fare corsa dura eliminando i velocisti. Ha spezzato il gruppo dando l'impressione per circa un giro di aver fatto fuori quasi tutti i Big annunciati. Ha marcato Gilbert a uomo e fin dall'entrata nel percorso di Gellong ha condotto la corsa dimostrandosi la nazione più intraprendente dando vita a tutte le azioni più interessanti. Poi all'ultimo giro, quando tutto si è deciso qualcosa non ha funzionato. Sull'attacco di Gilbert nessuno è riuscito a chiudere, nessun azzurro era nell'azione che poteva essere decisiva. Il faro designato della squadra, Filippo Pozzato, non ha acceso la luce lì sull'ultimo strappetto, scolliando con 24" dall'indiavolato Belga. Poi quando tutto sembrava perduto ecco rinvenire il gruppo a tutta velocità che manda in fumo i sogni iridati di Gilbert, favorito della vigilia, rimasto senza compagni d'avventura nell'allungo decisivo. Eccoci quindi all'incubo della vigilia: la volata di gruppo. Senza i velocisti puri, già ai box da parecchi giri, ma con presenti il potentissimo Hushovd e l'eterno spauracchio Freire. Appena il tempo di accorgersi che anche Pozzato è li con i migliori, anche se un pò indietro, ed ecco che il vichingo norvegere in un lampo mette tutti in riga, precedendo il coraggioso Breschel e l'agilissimo Allan Davis. Il fotofinish è l'ennesima pugnalata al cuore dopo la sconfitta, che certifica la beffa oltre al danno. Pozzato 4° d'un soffio, dopo una volata in rimonta, dopo aver battezzato la ruota sbagliata: quella di Freire, che per anni ci ha beffato sul traguardo arrivando davanti a tutti. Ecco che li beffa di nuovo impiantandosi nel giorno in cui doveva fungere da trampolino. Quarto dopo i crampi, dopo aver visto i compagni dare tutto sul circuito australiano, quarto dopo un finale che non rende giustizia alla nostra nazionale...
E infine ci sono le nostre facce, deluse in principio, ma consapevoli che nello sport si vince e si perde e che l'importante è dare tutto per non aver rimpianti. L'Italia non ne ha, dopo un mondiale corso in prima linea fin dall'inzio salvo poi mancare del guizzo giusto nel finale.