Quello della fine del mondo è un sentimento specie specifico che segna la relazione degli uomini con la realtà tutt’intorno. Non è, dunque, un’emergenza ma si tratta di un aspetto regolare dell’affettività tipicamente umana. Da un lato, lo dimostrano le tante fini del mondo che si sono succedute nel corso degli anni e che già, per intenderci, al giro di boa del pimo millenio ha tenuto in anzia i medioevali e che poi all’ingresso del 2000 ha quasi strozzato in gola lo spumante ai veglioni dei postmoderni. Dall’altro, la fine del mondo va letta nella sua qualità di tratto antropologico imprescindibile per la specie Sapiens sapiens.
Ernesto De Martino, autore de La fine del mondo
E veniamo, quindi, al punto che più interessa. The end, l’apocalisse, la conflagrazione, è un dato metastorico che appartiene alla forma di vita la cui condotta manca di un centro di gravità permanente. Di un luogo, di un orizzonte spazio-temporale in cui collocarsi una volta per tutte. Il mondo che ci costruiamo è sempre destinato a finire, fin dal giorno della sua creazione. Fin da subito, occorre mettere in conto l’ultima ora, quella del giudizio. L’altro nome della fine del mondo è l’angoscia dell’uomo. Questo, che è un bassocontinuo delle passioni nostrane, acquista credito nei discorsi e nei media, in corrispondenza di massicci avvenimenti storici. Può essere il calcolo astronomico compiuto da una importante civilità, può essere un cataclisma, può essere un’apocalisse culturale. A me pare che oggi, piuttosto che credere al calendario Maya (si badi: senza screditarlo, perché fa parte della cultura e delle abitudini di un certo modo di stare al mondo e ne segna una tappa a suo modo fondamentale), è più opportuno fare i conti con un sentimento di angoscia e di fine legato al salto di paradigma storico-sociale cui siamo difronte. Stiamo vivendo l’epoca apocalittica dell’ultimo sistema dominante che la storia ha prodotto e che peraltro si è presentanto al mondo come il più compiuto di sempre, duqnue, con la fine della storia già in tasca. Non vedremo, forse, la catastrofe del capitalismo ma la percepiamo, la sentiamo.