Il composito fronte antinazionale – tra pseudo-antagonisti, poteri costituiti, padano-indipendentisti, meridionalisti borboneggianti, politici e tecnici garanti di subalternità e predonomia esterna e parassitismo interno – si arricchisce di una nuova categoria trasversale. Eccoli, ci mancavano gli antiolimpici, ultimo ritrovato del “tecnicismo” saggio e consapevole nonché della montante mentalità anti-Stato che pervade la logica protestataria di una massa succube di parole d’ordine, slogan e concettualizzazioni artatamente inoculati per aizzare gli animi e blandire razionalità e realismo. Monti e qualunquisti salgono insieme sul podio. Oro, argento e facce di bronzo. Ma senza inno nazionale e tricolore, una volta di più calpestati e irrisi. Gli antiolimpici tecno-qualunquisti sono la doppia faccia della stessa medaglia alla decadenza del Paese. Possono appuntarsela con merito sul petto o infilarla al collo. Il populismo ormai è enciclopedia a portata di tutti. Tutti esperti di tutto. E’ il sapere fondato sulla recriminazione e la contestazione per giusta causa.
Una serie di motivazioni addotte pregne di demagogia accademica e buon senso cavernicolo hanno fatto carta straccia della candidatura italiana alle Olimpiadi del 2020. Poche le argomentazione fondate. Per il resto solo una grottesca sequela all’insegna del solito italico vezzo auto-denigratorio per il quale tutto ciò che facciamo noi è in partenza inferiore, disorganizzato, corrotto. Non solo, bisogna risparmiare, non possiamo permetterci spese mentre il Paese fa sacrifici per non sprofondare nel baratro, sanzionano gli illuminati. E continuano: c’è l’esempio della Grecia…ci sono le cricche, le incompetenze, le opere incompiute ecc. ecc. L’elenco delle fandonie, delle semplificazioni e delle verità storpiate con disinvoltura è ben assortito. Dunque? L’immobilismo, la rinuncia, l’incapacità di uno slancio organizzativo, di una prospettiva da coltivare, di uno sforzo per migliorarsi. Esattamente il miglior modo per continuare nell’auto-castrazione, per porsi alla dissennata mercé di qualsiasi forza che miri al parassitismo, all’impoverimento sociale, al nanismo formato Paese. Una miopia strategica che è perfettamente nelle corde di un governissimo come questo, agente antinazionale su mandato straniero, la cui millantata portata internazionale risiede solo nel metodico asservimento ai desiderata esterni. Non poteva che risentirne anche il fattore sportivo. E la consueta stampa facilona, per convinzione o per “servizio”, ha fatto ancora una volta da cassa di risonanza del “luogocomunismo” da bar e dell’economicismo anti-economico (che è azione comunque politica). I Giochi Olimpici vengono derubricati a diversivo, a moina, a poco di più di un giochino da passatempo o al massimo ad una astratta chimera che “non possiamo permetterci” perché sono altri i problemi del Paese, come recita il vangelo del “benaltrismo”. E già, sono quegli stessi problemi che una mentalità così farloccona non sarà mai in grado di affrontare oltre che di leggere.
Ci sono almeno due ordini di considerazioni – sociale e politico-economico – inerenti all’organizzazione di un evento sportivo di portata internazionale. Entrambi si legano a vicenda su di un’unica piattaforma di sviluppo che sappia coniugare esigenze di intervento strutturale e opportunità contingenti. Quindi, un progetto a medio-lungo termine che non rivoluziona certo ogni ambito, ma incide notevolmente in termini di immagine, di partecipazione sociale e di vantaggi economici. Una millenaria competizione sportiva come le Olimpiadi ha di per sé una valenza storica che non ha bisogno qui di essere rimarcata. Il valore ed il significato dello sport sono lampanti, al netto di aspetti negativi che del resto attengono alla vita sociale e degli individui.
Dal punto di vista sociale, l’organizzazione di un evento nel corso degli anni permetterebbe di investire nelle varie discipline sia in termini di risorse umane che di strutture. Una miriade di opportunità e di esperienze dalle scuole alle palestre, ai campi, ai trasporti, agli scambi culturali ecc. Dal punto di vista politico-economico, il risvolto risulta anche più netto. I grandi eventi, in specie quelli sportivi, nell’attuale dimensione globale sempre più inter-connessa sono significativi e talvolta emblematici del corso intrapreso da questo o quel Paese. Lo sport è anche un fattore geopolitico e geoeconomico (la celebre rivalità USA-URSS n’è plastica rappresentazione). L’immagine nazionale sul proscenio globale non è fittizia rappresentazione o surrogato d’identità. Nel gioco di potenze, quella sportiva ha ragion d’essere anche in virtù di quella politica. L’una e l’altra presuppongono una progettualità ed un’assertività che non sono mai fini a se stesse, ma serbano caratteri identitari e progresso socio-economico. Si pensi all’esperienza olimpica cinese, ai Paesi in lizza nelle varie candidature. Si pensi al Brasile, altro attore internazionale indiscutibilmente in ascesa. Non è una nota di colore o per ludico trastullo che esso si sia aggiudicato i Mondiali del 2014 e le Olimpiadi del 2016. Questi eventi sono al tempo stesso effetto dei progressi maturati e occasione di investimento e di cambiamento. Le città cambiano volto o si rimettono a nuovo. Si costruisce, si investe, si crea lavoro, si determinano opportunità sociali anche puntando sul fenomeno sportivo. Sono tutte componenti di un’unica svolta politica del Paese.
Noi invece possiamo menar vanto di un’autentica miseria strategica, dalla politica all’energia, all’industria e dunque allo sport. Al di là dell’opinabilità delle decisioni, sono nero su bianco i progetti per Roma (e non solo) e gli introiti ai quali a questo punto dovremo rinunciare. Anche il “banale” concetto, anzi strumento dell’investimento non è più contemplato. Altro che ricerca, innovazione, tecnologia. Ci stiamo relegando alla periferia dei centri nevralgici, retrocedendo a “cotoniera” terra di commercio in procinto di “liberalizzazione”, come recita il copione riservato ai Paesi destinati alla subalternità politico-economica. Ne sono complici i trinariciuti giustizialisti con velleità moralistiche. Quelli per i quali progetti od opere, pubbliche o private che siano, sono forieri innanzitutto e ovunque di ruberie e arricchimenti a danno della collettività. Inutile ribadire che il fenomeno sussiste, ma va inquadrato in maniera non ideologica e non affatto come un’esclusiva italiana. Ladrocinii e corruzione vanno da un lato combattuti e dall’altro ponderati all’interno di una realistica visione d’insieme. La loro assolutizzazione è solo funzionale alle strumentali rabbie popolari che fanno il gioco di determinati interessi. Se negli anni ‘50-’60 fosse prevalsa una siffatta mentalità e un giustizialismo armato in stile Mani Pulite, in realtà strumento politico, questo Paese non avrebbe mai avuto sviluppo industriale e progresso. I moral-giustizialisti sono pedine della strategia di indebolimento dell’impulso statale e della cacciata del Paese sotto la soglia di sovranità e potenza. E saranno di nuovo complici, anzi “utili idioti”, nei rinnovati attacchi alle nostre aziende strategiche. Non potevano mancare loro, in prima fila contro le Olimpiadi, nell’ennesima battaglia di retroguardia di questo Paese. l qualunquisti sono l’altra faccia del presunto tecnicismo alla Monti, che è cristallina manovra politica e non ragioneria bancaria come professano i faciloni. E non a caso, insieme vestono pure la casacca degli antiolimpici. Medaglia d’oro antinazionale.