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Premessa d’obbligo: Morvern Callar (2002) è film nettamente meno incisivo del suo predecessore Ratcatcher (1999). La pellicola, tratta questa volta da un romanzo di Alan Warner, può vantarsi di possedere come start una bella miccia narrativa, e grazie all’occhio della Ramsay l’appartamento-loculo illuminato ad intermittenza dall’albero di natale rende ficcante l’immagine di un uomo riverso sul pavimento e di una ragazza stesa al suo fianco. Le premesse rullano bene perché a questo macabro evento corredato di lettera d’addio sullo schermo del pc, vengono insertate porzioni di amara esistenza che si affidano alla visione piuttosto che alla spiegazione; prendiamo come esempio la conversazione di Morvern alla stazione con quello che probabilmente è un solitario interlocutore, oppure quando la stessa protagonista, dopo un’ordinaria serata di bagordi, mostra le parti intime ad un pescatore sulla barca. Se l’intento era quello di delineare una persona senza coscienza, senza rimorsi, senza riconoscenza (a novel by… e poi sotto, come un macigno: i love you), l’obiettivo viene centrato, anche perché il contorno (il lavoro, l’amica, il pub) ben si adegua al suo grigiore esistenziale.
Enucleati tali assunti, il film sfibra di consistenza con la vacanza spagnola. C’è un vero cambio di registro che non riguarda soltanto l’assolata ambientazione mediterranea, ma il flusso argomentativo che si leva dal dramma e qualcosa di più (storie di cadaveri fatti a pezzi nella vasca), per avvilupparsi in toni consueti che abbondano di prevedibilità: le due che si danno alla pazza gioia, e inutilità: Morvern che si insinua tra le lenzuola di uno sconosciuto. La corporeità si perde in questo segmento ispanico, zenit concettuale alla località scozzese, ma sul piano più strettamente pragmatico troppo inconcludente per garantire l’integrità dell’opera. Grazie al cielo, poco prima che tutto svanisca in una deriva comica (i battibecchi tra le due amiche smarrite nel nulla), Ramsay ricuce in parte lo strappo grazie all’aggancio con il racconto scritto dal suicida e al colloquio tra la ragazza e gli editori che crea complicità con lo spettatore.
La figura di Samantha Morton non cede praticamente mai dimostrandosi maledettamente cinica dall’inizio alla fine; la caratterizzazione può definirsi riuscita e il suo coraggio è piuttosto noncuranza sentimentale a dir poco raggelante. Il problema contingente è che la storia, con la sua deficitaria parte centrale, non regge il confronto producendo una frattura difficilmente ricomponibile con i gusti di chi la sta guardando.
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