Forse piace per questo la Strade Bianche. Piace ai corridori e al pubblico di tutto il mondo perché quegli sterrati che non conosceranno mai l’invenzione dell’asfalto portano con sé qualcosa di leggendario e di intimo assieme. Perché tra quelle campagne, tra quei cipressi silenziosi, c’è ancora lo scricchiolio delle ruote dei carretti in legno di cento anni fa. E la polvere, quella che sollevavano allora, è la stessa di oggi. Polvere alzata da ruote sottili che, ogni volta, si chiede un miracolo perché non si buchino. Polvere che entra dentro, che si deve ingoiare per forza per arrivare al traguardo.
Tutti aspettavano Cancellara, incontrastato dominatore, che, quando parte, è difficile che non arrivi al traguardo. E forse noi italiani avevamo un po’ smesso di sperare, dicendoci che gli anni d’oro del nostro ciclismo, prima o poi, sarebbero arrivati ma, diciamocelo, più poi che prima. Invece oggi, sulle strade che portano a Siena, tra la polvere e il sole, si è alzato un grido antico e nuovo, come se qualcosa di bello potesse tornare dal passato, come se ce l’avessimo già lì, pronto solo da urlare: “Moser!”
Moreno Moser comincia la sua cavalcata verso Piazza del Campo quando mancano circa quindici chilometri e va a riprendere Juan Antonio Flecha, temerario fuggitivo controvento nella terra di nessuno. Se lo tiene a ruota per un po’ ma poi lo abbandona a sé stesso, lo lascia in pasto al gruppo, assieme allo sfortunato Giairo Ermeti e Aleksejs Saramotins. All’appello mancano Michael Schar e Maxim Belkov: Moreno sa che hanno tanti chilometri sulle spalle e che quella è la sua carta da giocare. L’unica, prima che il gruppo o re Fabian decidano di andare a riprenderlo. E allora via, all’inseguimento. E le sue due ruote viaggiano assieme a un filo potente, che tiene il fiato sospeso in tutta Italia. I sogni, quando iniziano a prendere corpo, sono più belli, toccano dentro. E il traguardo verso il quale va Moreno è il sogno di una Nazione, un riscatto che abbiamo aspettato sfogliando le pagine nere.
Quando il giovane trentino riprende la testa della corsa, il gruppo si dice che non può più lasciarlo andare e aumenta il ritmo. Il filo si tende, forse si spezza. Ma Moreno stringe i denti, chiede il cambio, si arrabbia, va all’inseguimento di Schar che tenta un’inutile scatto. E aspetta. Aspetta il momento in cui potrà dire alle gambe di sì, che adesso possono staccare tutti, che si può fare. Un chilometro e cinque. E tre. Due. Un chilometro solo al traguardo. Un chilometro tutto in piedi, da fare in punta di pedali, per arrivare a Piazza del Campo che italiana non è stata mai. Moreno si gira: una, due, tre volte. E parte. Scatta senza voltarsi, questa volta. Sa che dietro ha fatto il vuoto. Lo sa, come tutti i ciclisti. Il fiato della ruota di un avversario si sente, si avverte. Lui sa che è da solo, che le grida su quello strappo tremendo prima della vittoria hanno tutte un solo nome: il suo.
Cento metri e il sogno porta i tre colori della nostra bandiera. Moser è il primo. Il primo sulla linea bianca e il primo italiano a mettere il suo nome sull’albo della corsa.
Il filo si riattorciglia, le ruote si fermano. C’era vento, oggi, per le strade polverose. Ma forse Moreno Moser non l’ha sentito. Non lo sente, il ciclismo italiano, il vento contrario. Si piega, finisce in prima pagina, ma il calore, le grida, tutta la gente che oggi sorrideva e piangeva, il vento lo fanno dimenticare. Diventa una brezza. Una brezza quasi inconsistente che serve solo ad alzare la bandiera. La nostra bandiera.