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Come per Hey Marseilles, la storia si è ripetuta quest’anno con i Motopony. Li ho scoperti in tarda primavera e me ne sono invaghito al punto di voler condividere l’incanto di questo disco con Voi … ma molto prima di adesso, credetemi, ma (ahimè) senza avere il tempo necessario (sempre lui), finendo per arrivare ad oggi, con la classifica di fine anno da stilare e senza averne fatto menzione alcuna. Rimedio, visto che, a parte tutto, si tratta del mio preferito del 2011 con la speranza che le ore piccole che sto facendo non siano vane e che i Motopony riescano a far breccia nei vostri cuori. Cosa dirvi allora? La sensazione costante che mi resta dopo aver finito di ascoltarlo è quella di un disco scritto e suonato in assoluta libertà. Pensato molto poco; fatto che porta con se, il grezzo e l’innocenza dei dischi primi. E la prima cosa che mi è venuta in mente, dopo essermi convinto che ‘Motopony’ un gran disco, è stata la risposta che Jeff Tweedy ha dato a Guglielmi del Mucchio che reputa i Wilco di oggi meno sperimentali e coraggiosi di qualche anno prima: “Sono in disaccordo al 100%...anche sul fatto che i Wilco siano diventati o siano mai stati una band “sperimentale” nel senso comune che si attribuisce al termine. Abbiamo sempre sperimentato per noi stessi, non per inseguire chissà quale concetto astratto di avanguardia…cercato sempre nuovi modi per esprimerci, magari anche nel contesto di un semplice pezzo country. I Wilco rivendicano di possedere un’indole aperta, un’attitudine eclettica al fare musica, ma alla fine crediamo di non uscire mai davvero fuori dal recinto del rock, pop e del folk.” Evidenti dimostrazioni su disco dell’assunto di prima si trovano nelle ballate ad ampio respiro di Vetiver, June e Wait for Me. La band del Tacoma è stata affiancata a nomi come quello dei Fleet Foxes, di Devendra Banhart, The Cave Singers, Iron & Wine. Ma se ne possono aggiungere tranquillamente ancora altri: ad esempio con due brani come Seer e I am my Body, si va dritti a sud a trovare i Lynyrd Skynyrd, e più in generale ci si imbatte in un mood molto vicino alla malinconia di Mark Linkous (God Damn Girls) e al cantato di Antony (quello coi Johnsons attaccati) in Vetiver. 11 le canzoni in totale (tra cui una centrale esecuzione strumentale) che ha una prima parte (una sorta di lato A) musicalmente più “leggera”, anche nei testi, valga su tutte King of Diamonds, non a caso scelta come singolo. Poi una seconda parte più malinconica ma anche la più bella e intensa. Tutte appoggiate su pochi strumenti acustici e la voce di Daniel Blue (ehi! … Blue? … ma dai! Personaggio sicuramente da approfondire che si presenta negli spettacoli in maniera singolare). Vi dicevo di God Damn Girls, con un arpeggio e una frase tamburellante che prendono posto delicatamente negli umori personali. Ma il collasso lo raggiungo con i 6 minuti e mezzo di Wake Up...
... voce, chitarra acustica, xilofono e quelle parole…mmm… beh magari anche banali: ma… sapete quando, avete delle sensazioni dentro a cui non riuscite a dare un nome… una spiegazione, e che casualmente trovate, anche solo nella lettura di un romanzo, che riesce a dare voce ai pensieri … ebbene, tutto questo sono state le parole e la musica di Wake Up… Dreamers are believers/That's how you buy into a dream /But how much more do you need to see/Before you can believe?/It's time to wake up from this dream …….. Wake up, wake up, you dreamer/Wake up and see the day/You thought it was a nightmare/But life has a mysterious way.
Pura estasi. E potrei concludere qui, ma c’è ancora un’ultima Euphoria, dolce terminale di un bel viaggio le cui note al pianoforte mi ridestano dal sogno …
“Do You remember kids?/ it's time to wake up/from this dream. Ma in questo sogno, insieme alla musica dei Motopony, ci resterei dentro a lungo. Thank you very much guys!
[Nota a margine: non sono riuscito a trovare che sia una, recensione italiana su questo disco, ma quando sono sul filsharing di Soulseek mi viene continuamente succhiato dal mio hard disk. mah! un vero mistero.]
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