Una delle poche cose che penso di sapere del cosiddetto giornalettismo rock è che quando si recensisce un nuovo album dei Motörhead è sempre necessario precisare che sia “perfettamente uguale a qualsiasi cosa abbiano inciso negli ultimi quindici anni”, ho letto questa frase (con minime variazioni) su ogni singola recensione che abbia riguardato una nuova uscita di Lemmy & Co. Con grande professionalità mi stavo dunque accingendo a scriverlo quando mi sono reso conto che, in effetti, degli ultimi album dei Motörhead non credo di averne sentito neanche uno per intero. Certo che se però sono tutti come Aftershock allora mi sa che ho un bel po’ di dischi da recuperare. Pezzi sparati a tremila, occasionali incursioni nel blues sofferente, spruzzate di machismo, mentre lo ascolto mi rendo conto che non ho bisogno di molto altro quando ho voglia di arroventarmi le orecchie. Forse è solo la suggestione della cronaca che ci racconta di un Sig. Kilmister un po’ acciaccato, ma Aftershock mi sembra pervaso da una sorta di fiera stanchezza, il grugnito di Lemmy è particolarmente dolorante, potrebbe quasi essere un correspettivo metallozzo di American IV: The Man Comes Around di Johnny Cash. Questi, in breve, i motivi espliciti per cui in questi giorni sto dedicando il mio tempo libero ad ascoltare musica rumorosa incisa da un vecchio ubriacone; ci sono poi tutta una serie di motivazioni più astratte (e se vogliamo, ehm, filosofiche) che mi fanno apprezzare particolarmente questa robaccia.
Aftershock è tutto l’opposto di ciò che non sopporto. Non sopporto i virtuosi, il G3 tour, le scale impossibili, il basso a sei corde. Ancora di più detesto i fan di questa roba e i loro commenti tecnici volti ad analizzare presunte imperizie nell’esecuzione, non sopporto quella faccia da caciottaro di James LaBrie e tutti quelli che indossano le magliette del suo gruppo pensando che sopra ci sia scritto Beethoven. Trovo patetico chi apprezza queste cacate e parla di grandi musicisti ed effettivi meriti artistici. Se proprio dovessi provare a convincere qualcuno del perché il metallo è una figata gli direi che è bello perché è fastidioso e le mamme lo detestano, perché ti rende ebete e alla lunga ti fa anche diventare sordo. Non mi importa nulla di essere ricercato o acculturato, non devo fare bella figura con te e con nessun altro. Io sono quello che disegna i cazzi in ascensore, sono quello che attacca le caccole sul muro del bagno dell’ufficio e piscia fuori apposta nel cesso dei locali. Quando faccio passare prima una signora non è galateo, è che le devo guardare il culo. Sì, vado molto fiero del mio essere un mezzo deficiente, è la parte migliore di me.
Birra, rutti, Motörhead: l’insostenibile leggerezza dell’essere metallaro. (Stefano Greco)
Magazine Cultura
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