Mount Olympus: per chi guardava, un libro delle ossessioni umane; per i performers, una sfida incessante con sé stessi; per Jan Fabre l’approdo naturale di una storia intensa e coerente.
Giorgos Papadopoulos / LIFO ©
Ho aperto gli occhi su un palchetto del IV ordine. Non sapevo a che punto della notte fossimo e non mi sono accomodata in uno di quei gesti semi automatici che uno fa quando si sveglia di soprassalto: controllare l’orologio, ridar forma al cuscino che ha la forma del nostro sonno. A dire il vero, non mi interessava sapere che ora fosse soprattutto perché ero certa non fosse trascorsa neppure la metà delle 24 ore che “Mount Olympus – To glorify the cult of tragedy” dura.
Sul palcoscenico del Teatro Argentina gli organi della cosa ingombrante di Jan Fabre dormivano davvero. Non credo profondamente, ma dormivano. 27 performers (brutta parola, ma non posso evitare di chiamarli così visto che il regista stesso lo pretende, affermando che tutti gli altri sbagliano a parlare ancora di “attori” e “ballerini”) scelti per un esperimento di sospensione della realtà, di archiviazione temporanea della routine… realizzato attraverso la reiterazione estenuante delle sensazioni basilari che ogni uomo in ogni routine prova.
Descrivere ciò che è avvenuto sul palco è la maniera peggiore di parlare di Mount Olympus; non c’erano dialoghi da capire, né interpreti da applaudire per la perfezione del loro recitato. Mount Olympus è stata un’altra cosa: per chi guardava, un libro delle ossessioni umane; per i performers, una sfida incessante con sé stessi; per Jan Fabre l’approdo naturale di una storia intensa e coerente.
Lui è un belga cinquantaseienne, è un regista, è un artista, è un uomo che a partire dagli anni ’70 non ha mai smesso di usarsi come oggetto sacrificale per chi osserva la sua arte. Le sue performances non sono mai disgiunte dal suo corpo… Che nel tempo ha sanguinato, è stato vestito di una giacca di carne cruda, si è trasformato in insetto e ha sempre fatto i conti con l’idea che agire su sé stessi non significa non interagire con gli altri, anzi la sua azione è perennemente un gesto politico nella società. Le opere di Jan Fabre macchiano, modificano lo stato delle cose e data la pervasività delle sue intuizioni, nel 1986 ha dato vita a Troublelyn che è il gruppo di interpreti che ha messo in scena anche Mount Olympus. Un gruppo di fanti disarmati che indiscutibilmente promanano dallo spirito del regista.
“Mount Olympus – To glorify the cult of tragedy” è uno spettacolo che avrebbe potuto essere un fallimento irrecuperabile o, peggio ancora, avrebbe potuto incenerirsi in un mero “evento imperdibile” di Romaeuropa Festival 2015. Nulla del genere è accaduto. Durava 24 ore davvero e gli unici momenti di pausa erano tali solo per gli spettatori: per 3 volte il rito dei 27 si è interrotto, ma se noi eravamo liberi di andare a dormire sui lettini da mare allestiti in vari ambienti del Teatro Argentina, di mangiare e guardare Roma dalle finestre della sala Squarzina, i performers restavano sul palco, nei loro sacchi a pelo bianchi. Anche questa per me era una scena di Mount Olympus: assistere al risveglio di 27 sconosciuti che con noi hanno condiviso anche le maniera in cui dormono. Molti di loro dormivano supini, col viso disturbato dalle decine di sfere/luci che nel corso delle ore illuminavano i momenti e i personaggi fondanti delle varie vicende. Ero convinta che a dormire rannicchiati su di un lato fossimo molti di più.
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Le tragedie classiche (fra le altre l’Eracle, l‘Agamennone, l’Edipo re, la Medea) sono quasi un pretesto, lo sfondo di cui Fabre si serve per descrivere l’uomo. Non nel senso che siano trascurate; tutti gli interpreti hanno letto i testi tragici e “Le nozze di Cadmo e Armonia” di Roberto Calasso è stato un binario importante per giungere a mettere in scena questa impresa. Ma se confondessimo Aiace con un altro eroe, Creonte con un altro re, poco cambierebbe di ciò che da Mount Olympus dobbiamo portarci via: l’invito a dare inizio alla nostra personale tragedia, senza appunto esser frenati dagli antecedenti regali o eroici delle azioni mostrateci dai 27.
Le provocazioni che permeano l’opera di Fabre non sono nient’altro che la trasposizione contemporanea della trasgressione delle leggi sociali e morali che hanno dato origine alle tragedie greche, anzi alla tragedia.
Provocazione, in questo contesto, è stato da una parte disobbedire alla fisiologia del proprio corpo, dall’altra gestirlo con la libertà di chi sa che mostrare sul palco i propri feticismi e le proprie manie non è solo rivelarsi, ma regalare gli spettatori un’immagine in cui riconoscersi. I performers sfiniti ed esausti ci hanno smascherati.
Partiamo dalla prima parte. Eteocle ed altri saltano la corda per mezz’ora, a ritmo sostenuto, urlando un coro in inglese che suggerisce che la ferocia e l’assenza di segreti tengono al riparo dalle sciagure. Riflettiamo: è disumano saltare la corda per 30 minuti, senza interruzioni, urlando a tempo. Ora rincariamo la dose: non saltano la corda, ma una catena! In questa mezz’ora si alternano i mugolii delle ragazze esauste, i sospiri dei ragazzi che per un attimo scaraventano la catena sul legno per poi riprendere urlando più forte di prima. Mount Olympus è questo, è una corsa accelerata verso se stessi, ma può capitare che ogni tanto taluno si blocchi. Il rumore cadenzato delle catene sul legno era un bel rumore ed era un sentiero. Anche noi appartenevamo a quel ritmo.
La perfezione dell’esecuzione non ha a che fare con il teatro di Jan Fabre, anzi, sul palco si sono accumulati sempre più ostacoli per gli interpreti. Nessuno degli spettatori però parlerà mai di imprecisioni o errori. Come poteva Ecuba non scivolare sul sangue che gocciolava dai pezzi di carne cruda lanciati in aria dai seguaci di Dionisio che l’avevano preceduta?
Due ballerine hanno piroettato intorno ad un Agamennone immobile, per 15 minuti una e 18 l’altra, cronometrati. Saranno state le 11 del mattino e in quel quarto d’ora io ho avuto il tempo di pensare a come organizzare l’intera settimana che stava per cominciare, ma ad un certo punto i loro movimenti stanchi e i loro lamenti hanno preteso la mia attenzione e non facevo altro che contare i loro scatti di testa e cercare di misurare quanto fossero stremate.
Dall’altra parte: Per riempire 24 ore il ricorso a sesso e morte era inevitabile. Gli spettacoli precedenti di Jan Fabre erano una premonizione sufficiente rispetto a tale eventualità, ma quanto era necessario! Le unioni fra uomini e piante, i corpi sporchi di terra, tanta era l’energia che ci mettevano a mostrarsi appassionati con i loro amanti vegetali, non possono essere sbrigativamente accantonati come una perversione. La radicalità della visione era sempre insieme alla neutralità della descrizione: questo accade, quindi questo è possibile.
Più di una volta ho considerato ordinari comportamenti che fuori dal Teatro Argentina consideriamo per lo meno insoliti.
E’ un grande merito ampliare lo spettro di ciò che è normale. E di certo buona parte del mio ragionamento è dovuta alla bravura degli interpreti. Questa dilatazione della normalità passa attraverso due canali che sembra che con la realtà non abbiano niente a che fare: innanzitutto l’aver indotto gli spettatori a trascorrere (volontariamente, eh) 24 ore in un posto che non ha le sembianze né di una casa, né di un posto di lavoro, né di luoghi in cui solitamente passiamo molto tempo (Io ho domito per un’oretta, ma appena sdraiata su un lettino da mare non riuscivo a prender sonno, continuavo ad assumere pose scomode da bagnante che prende il sole); poi l’aver deciso che gran parte della azione in scena fosse ripetizione compulsiva di movimenti e parole, più i cori ripetevano parole e movimenti meno sembravano esseri umani… più continuavano a ripeterli più noi li assimilavamo.
A Roma, se vi va, fino al 10 novembre c’è una galleria che ospita alcuni lavori di Jan Fabre fatti con la bic, io e Maria, che è stata un aiuto fondamentale per scrivere di tutto questo, ci andremo.
Ci sarà stato un attimo, nelle 24 ore, in cui tutti gli smartphone e i cellulari degli spettatori erano scarichi? Sul palcoscenico sono rimasti cumuli di colori e polveri dell’ultima danza liberatoria. Dal IV ordine sembravano inchiostro e porporina… dalla platea vernice terribilmente viscosa e pezzi di vetro.
Giorgos Papadopoulos / LIFO ©